Nel corso del Settecento è stata alla base dell’etica di David Hume e Adam Smith. E, nell’ambito della filosofia contemporanea, il filosofo Max Scheler le ha addirittura dedicato una intera opera. Deriva dal greco sun “con” e pàschein, “patisco, subisco”. Quindi “patire insieme” o “provare un’emozione con”.
Stiamo parlando della simpatia, cioè dell’interdipendenza delle cose, che si influenzano reciprocamente. Quando applicata all’ambito umano, indica la possibilità di un individuo di condividere, o almeno comprendere, emotivamente le esperienze degli altri.
Diversa dall’amore o dalla fusione emotiva, per Scheler si può provare simpatia o compassione per un dolore altrui, senza per questo provare questo stesso dolore. Si può partecipare al sentire dell’altro senza però provarlo direttamente.
«Ciò che noi, attraverso la percezione dell’altro, non potremo mai “percepire” sono soltanto gli stati del corpo vissuti dall’altro, cioè soprattutto le sensazioni degli organi e i sentimenti sensoriali ad essi connessi»1.
Quindi, di fronte allo stato di sofferenza in cui si trova immerso un altro soggetto non potremo rivivere il medesimo dolore, che inevitabilmente, essendo vincolato a quel determinato corpo e a quella determinata vita, ci è inaccessibile.
Ma la simpatia rimane essenziale per la comprensione degli altri e il riconoscimento dell’alterità delle persone. Questo perché si pone come disposizione attraverso cui noi possiamo farci carico, condividendolo, uno stato emotivo appartenente ad un altro soggetto. Si dà simpatia quando le emozioni vissute da una persona provocano una certa risonanza, originando così uno stato di “sentimento condiviso”.
In Essenza e forme della simpatia, opera pubblicata nel 1913 ma profondamente rivista e ampliata in occasione dell’edizione del 1923, Scheler parla della simpatia, considerata per lungo tempo un sentimento morale e identificata con la compassione, nonché assurta con Darwin a origine della socialità umana e della morale, in maniera opposta alla tradizione.
Per Scheler, essa rappresenta uno dei nodi cruciali e articolati dell’esperienza: si costituisce attraverso l’apertura al mondo e ai suoi significati, con un movimento di superamento dei confini dell’io e di ricezione, risposta, partecipazione e condivisione di ciò che è altro. La simpatia diventa così accesso al mondo, alle persone e alle cose.
Ma la stessa simpatia, come spiega Scheler, ha diverse forme: è co-sentire ma anche contagio, ad esempio. Se nel primo caso noi prendiamo parte alla sofferenza o gioia dell’altro volontariamente e consciamente, nella forma del contagio invece siamo come trascinati involontariamente e inconsciamente a provare quella determinata gioia o sofferenza nella misura in cui avvertiamo il pathos dell’altro come nostro.
Caso ancora diverso è quello dell’unipatia, fenomeno per il quale ci indentifichiamo in maniera completa involontariamente e inconsciamente con un altro soggetto, non limitandoci a considerare come nostro un vissuto altrui, come invece accade nel contagio, ma facendo del nostro io un tutt’uno con quello altrui.
«La genuina unipatia del proprio io individuale con un altro io è solo un’accentuazione, per così dire, un caso limite del contagio. Qui infatti un determinato processo affettivo altrui non solo vien considerato inconsciamente come se fosse proprio, ma anche l’io altrui viene addirittura identificato con il proprio io. Anche qui, l’identificazione è tanto involontaria quanto inconscia»2.
Nell’opera scheleriana, tra gli scritti più importanti dedicati dal filosofo alla costruzione fenomenologica di una filosofia della persona, si parla anche di amore, ovvero di ciò che è interamente diretto ai valori positivi della persona. E che, in quanto tale, è base essenziale dei rapporti autentici.
Il filosofo propone al lettore una chiara differenza tra amore e simpatia. Il primo si differenza dalla seconda perché è riferito a un valore e per sua stessa natura non può essere mai “simpatia con se stesso”. Inoltre, l’amore non è un “sentire”, una funzione, ma un atto spirituale, un movimento. Secondo Scheler, ha un senso trattare l’amore e l’odio come moti dell’animo e non come sentimenti o affetti perché questi ultimi comportano un riferimento al sentire e, di conseguenza, a una condizione di passività che l’amore, in quanto attivo, non conosce.
Se quindi, ad esempio il com-patire, forma di simpatia, è un portare insieme all’altro una sua gioia o una sua sofferenza, l’amore e l’odio sono invece un’azione verso di lui.
Secondo Scheler, ci è data la possibilità di amare (o odiare) qualcuno indipendentemente da quello che l’altro sta provando. Per questo amore e odio non scaturiscono come risposta a un sentimento provato dall’altro ma spontaneamente. Il sentire su cui si fonda la simpatia è invece un acquisire, sia il senso dei valori sia quello degli stati come il patire, il sopportare, il tollerare.
E se l’amore è, soprattutto, un atto spontaneo – e lo è anche nell’amore ricambiato, «qualunque possa esserne il fondamento»3 – ogni simpatia, al contrario, è un comportamento reattivo. Eppure, ogni simpatia è in sé fondata su un amore, e cessa qualora venga a mancare d’un qualsiasi amore. Ma nonostante questo, si può provare simpatia per un individuo particolare, senza per questo amarlo.
Riccardo Liguori
NOTE
1. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, trad. it. a cura di Laura Boella, FrancoAngeli, Milano 2012, pag. 239.
2. Ivi, pag. 51.
3. Ivi, pag. 152.
[Photo credit Toa Heftiba via Unsplash]