Ricordate quando a scuola, specialmente nei primi anni, si veniva a formare quel brusio di sottofondo tanto condannato dai docenti? I richiami erano frequenti, ma nessuno imparava mai a quanto pare. La lezione non entrava in testa, tanto che dopo qualche minuto dal rimprovero, ogni scolaro si ritrovava di nuovo a parlare, ad impiegare la sua voce assieme a quella di tutti gli altri suoi compagni, formando appunto quel rumore, un’unica imponente voce che comprendeva ogni tono, parola e discorso di ciascun partecipante.
Avete mai fatto caso alla struttura di quest’ultima? Fermarvi per un istante ad ascoltare, cercare di distinguere ogni singola componente, scinderla dal complesso e portarla al vostro orecchio, lo avete mai fatto? È una cosa che mi diverte sempre, soprattutto ora che a scuola non ci vado più, ora che sono immerso nel mondo, quel mondo che appartiene ai “grandi”. E li vedo, anche loro sono lì ad impiegare le loro voci, anche loro non hanno imparato la lezione, riempiendo fino all’orlo luoghi che altrimenti sarebbero silenziosi. Mi piace osservarli come facevo con i miei compagni, vedere i loro comportamenti così corretti e omologati, ognuno intento a dire ciò che deve assolutamente dire, raccontare se stesso a più persone possibili forse per ingannare la solitudine, per ingannare se stesso. Ovunque voi andrete potrete sentire questa continua chiacchiera, questo suono che pare così necessario, di cui nessuno si domanda l’utilità, o più precisamente, nessuno si rende conto dell’effetto che può avere. Potrete sostare ad una caffetteria qualunque ed essere immersi nei mille discorsi che la animano, tutto ciò senza preparazione, senza accordo alcuno tra le persone. È così per ogni luogo pubblico e non solo, si sta invadendo con ingordigia ogni angolo del pianeta, in ogni singolo posto pare esservi una parola intenta a descriverlo, renderlo vivo, cercando disperatamente di aggiungere qualcosa, come se ciò che ci è fornito non ci bastasse. Non ci bastano i bellissimi paesaggi di cui disponiamo, le meraviglie che la natura riesce a mostrarci, luoghi che da sempre ricerchiamo. Ogni tanto sentiamo il bisogno di partire, di abbandonare la quotidianità e di riscoprire noi stessi in altri luoghi, magari più solitari e liberi. È capitato anche a me di recente e forse è per questo motivo che sto trascrivendo qui questo mio pensiero, proprio perché anche io mi ritrovo in mezzo alla folla chiassosa che tanto condanno nelle prime righe. Ne facciamo tutti parte e ce ne rendiamo conto quando ne usciamo, quando passiamo al meravigliarci di certi momenti che non richiedono parole, che non vogliono essere descritti, che si fanno bastare così come sono. Penso sia questa la chiave del rapporto che abbiamo con gli altri e della solitudine che spesso si presenta come sentimento nella nostra vita.
Difatti il nostro accontentarci del quotidiano, del far parte di tutte quelle voci, lascia spazio ad un grande vuoto, un’insoddisfazione che può crescere rigogliosa al nostro interno. Pensate sempre alla scena in caffetteria, ai vari tavoli che si trovano vicino al vostro e alle persone che sono presenti. Potrete osservare che ogni discorso, ogni dialogo ha la stessa struttura, si concatenano quasi sempre allo stesso modo. Lo si può capire solo osservando l’ascoltatore, o meglio, il presunto ascoltatore. Ebbene è facile ormai notare come ogni nostro interlocutore sia lì, presente forse come un falso interessato, pronto a rispondere con le parole migliori, le meglio pensate, in grado di stupirvi. La verità è che ci sentiamo così protagonisti di questa vita, a volte addirittura della vita degli altri, che arriviamo a pretendere sempre i riflettori puntati verso di noi. Il nostro ascolto risulta essere solo l’attesa per una formulazione efficace, ovverosia ci riduciamo ad ascoltare per rispondere e non per il solo piacere, oltre che all’utilità, di ascoltare. Non so se a voi sia mai capitato di avere un sincero e sentito dialogo con una persona, composto di silenzi, attimi di riflessione e di accordi e concessioni, quasi da ricondurci alla struttura del dialogo tra i vari interlocutori di Platone attraverso la figura parlante del maestro Socrate. Anche in questo caso arriviamo a meravigliarci di quanto risulti essere differente un dialogo del genere rispetto alle solite conversazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno, e tutto ciò solo per il fatto che parliamo veramente con un ristretto numero di persone, quasi da poterle contare sulle dita di una mano. Per la maggior parte del tempo, invece, ci abbandoniamo ad un sistema malato, fasullo se contiamo le necessità di una persona. Tutta quella chiacchiera che continua a circondarvi, secondo dopo secondo, è il motivo principale che ci porta a sentirci soli, incompresi e muti rispetto al mondo. Arriviamo all’incapacità di comunicare davvero noi stessi, bensì solo all’emissione di suoni, un freddo e disinteressato linguaggio che linguaggio non è più. Da noi può librarsi solo un timido e silenzioso grido, quell’inconscia richiesta di essere salvati e che da molte, troppe persone verrà ignorata, finché non incontreremo il nostro miracolo, e potremmo essere noi stessi come un’altra persona che, anch’ella come noi non poteva salvarsi da sola.
Alvise Gasparini
[Immagine tratta da Google Immagini]