Un silenzio ci accompagna. Un contesto muto, o meglio ammutolito, si paventa e genera imbarazzo, quasi a chiedersi se sia possibile dire qualcosa di giusto, di sensato per rompere questa piatta condizione. Solo un folle, una persona atipica potrebbe farsi carico di un’operazione controcorrente, se non atto coraggioso. Ebbene la non-azione scelta dalla massa si fa azione collettiva, diventa quella cosa giusta da fare poiché eletta all’unanimità. Tutto e tutti rimangono immobili, «Nessuno arriva, nessuno se ne va» scrive Samuel Beckett in Aspettando Godot. Tale atteggiamento di rinuncia nasconde quell’insicurezza insita in ogni uomo che, se portata all’estremo, è capace di dominarci e porci nella condizione di opposizione alla possibilità, una chiusura all’ignoto verso il quale risultiamo prevenuti.
È perfettamente comprensibile la sensazione di sicurezza che tutti proviamo all’interno della nostra zona di comfort, all’interno delle mura di Atene. Eppure è proprio uscendo dalla suddetta città greca che Socrate, protagonista assieme a Fedro, dell’omonimo dialogo platonico, conosce quella realtà esterna, una verità dimenticata e ormai insperata: al di là della città non v’è alcun nemico. Certo si potrebbe incombere in un imprevisto, doversi confrontare con un pericolo e con degli sconosciuti, ma non è forse l’incognita necessaria e naturale che va a comporre il mondo in cui viviamo? Rimanendo all’interno delle mura di Atene, probabilmente, si può creare un micro-sistema autonomo, sufficiente ed indipendente, volto ad una auspicabile serenità, insomma una miniatura ben più controllabile del mondo per intero. C’è da chiedersi, però, se questa simulazione, se questo artificio valga la pena di essere considerato il mondo, la nostra realtà all’interno della quale sentirsi sicuri, rinunciando all’idea di un bontà maggiore e al di fuori di esso.
Lo stesso Platone, all’inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a), ci espone il mito della caverna, il quale rappresenta degli uomini in una condizione di schiavitù e falsa credenza, portati alla convinzione che la realtà della caverna sia tutta quella da loro conoscibile. L’uscita di Socrate dalle mura rievoca la medesima situazione, oltre che lo stesso stupore per l’inaspettata realizzazione di quella nuova realtà così diversa dalle aspettative costruite precedentemente. È così che nel Fedro veniamo invitati ad uscire di casa, uscire dalla nostre convinzioni per abbracciare il mistero e il non conosciuto che si cela dietro al prossimo angolo. Il passo da fare richiede una dose di fiducia e, in alcuni casi anche di coraggio, al fine di superare l’atteggiamento di attesa ed insicurezza incapaci di darci un risultato soddisfacente a lungo tempo. La natura umana è attratta dal mistero e cercherà sempre di uscire da se stessa, di liberarsi da un rapitore o un tiranno, anche quando esso sarà rappresentato da noi stessi.
Lo stesso Socrate ringrazierà Fedro per averlo convinto e si sentirà a suo agio, in mezzo alla natura, alle cose belle che non poteva ammirare in ugual modo all’interno della sua città. Già da questo contesto si evince come il dialogo necessiti di una condizione agiata, di serenità, aprendosi al mondo e alle sue infinite possibilità e bellezze. Le belle parole, i sentimenti e le cose buone che faranno parte del dialogo tra Socrate e Fedro altri non sono che l’attuazione delle possibilità umane, ciò che è celato nell’animo degli individui e che aspetta il kairos, il momento opportuno per sprigionarsi e librarsi nell’atmosfera e giungere ovunque secondo un movimento di libertà. Questa è la via indicata per lo svelamento delle cose, la ricerca della verità che la filosofia si propone di perseguire e che trova una matrice da un atteggiamento di leggerezza unito ad uno thauma, la meraviglia aristotelica per tutto ciò che ci circonda.
Proprio dall’osservazione di ciò che vive e sussiste attorno a noi, in modo buono e sufficiente, emerge la verità delle cose, quella domanda senza risposta che apre al dialogo filosofico intento a sviscerare l’essenza ultima e più profonda del mondo circostante. È il terreno fertile per l’amicizia tra Socrate e Fedro, per l’armonia della condivisione tra due individui dediti allo scambio e alla cura dell’altro mediante il confronto e la comprensione reciproca che solamente attraverso il logos può avvenire. Difatti lo stesso Platone cerca di trasmetterci un insegnamento o anche solo una personale percezione dell’amicizia attraverso un susseguirsi di battute, di disquisizioni sull’anima, la follia, l’arte e l’amore paragonabili ad un viaggio mentale dei due protagonisti. Un viaggio che solo due persone davvero in relazione tra loro sarebbero capaci di condurre, andando sempre più nel profondo, «chiamando le cose col proprio nome» come scrive Pasternak ne Il dottor Živago.
Si arriva ad ambire al tutto, a volersi confrontare con l’infinito, fino a quel punto di svolta, quella presa di consapevolezza capace di farci fare quel passo indietro, alleggerirci, lasciando andare ogni cosa senza troppo attaccamento. Giungendo a questo risultato si rilassa il proprio animo, gli si comunica che lo spettacolo dialogico si sta avviando alla sua conclusione e si apre al distacco dalle proprie parole e convinzioni, il tutto come nella pratica del mandala di sabbia nel buddhismo tibetano, opera che al momento della cerimonia finale si accetta di lasciar andare e dunque cancellare. Allo stesso modo il Fedro trova la sua cesura con la fine del dialogo tra i due protagonisti che si avviano assieme dopo che il giovane allievo di Socrate pronuncia le parole «Le cose degli amici sono comuni».
Alvise Gasparini
[Immagine tratta da Google Immagini]