Abbiamo finalmente valicato un annoso limite insito nella nostra giurisprudenza e reso ulteriormente problematico dalle nostre diverse attitudini morali. La legge sul fine vita che mancava al nostro paese è ora una condizione di partenza per rendere il sentiero che precede una morte ormai preannunciata l’ultima occasione per esprimere una certa libertà di scelta. Siamo passati dal gruppo dei paesi europei che non aveva una legislazione sul testamento biologico, a quello dei paesi che possiede una legislazione in materia, diventando il quattordicesimo1.
In poche parole, le “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ci danno la possibilità di esprimere le nostre convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, tra cui anche il rifiuto delle cure che, nella fase terminale della vita, si potrebbero profilare come accanimento terapeutico. In particolare, è possibile rifiutare la nutrizione e l’idratazione artificiali. Tali decisioni potranno essere espresse a ridosso del verificarsi della prognosi infausta, qualora il paziente sia in grado di esprimerle, ma è importante il fatto che potranno anche essere redatte molto prima, anche in stato di salute (direttive anticipate di trattamento, o DAT), potranno essere modificate in caso di ripensamento e avranno carattere vincolante per il personale sanitario, con solo alcune eccezioni.
La presa in carico del limite
Per questa approvazione finale al Senato potrebbe essere stato utile il recente contributo di Papa Francesco. Infatti, nel contesto del Meeting Regionale Europeo della World Medical Association in materia di “fine-vita”, organizzato in Vaticano unitamente alla Pontificia Accademia per la vita, Bergoglio si era espresso contro l’accanimento terapeutico. In particolare, aveva dichiarato che «occorre un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». È proprio la presa d’atto che la tecnica applicata al campo della salute non dà solo risultati graditi e sperati il punto chiave della questione. Al giorno d’oggi le morti tempestive, cioè le morti che si avverano in tempi così brevi da non dare tempo ad alcuna manovra terapeutica, sono rare. Queste sarebbero gli unici casi in cui la morte avverrebbe con decorso totalmente naturale, cioè senza possibilità di appello alle capacità della medicina. Nella grande maggioranza dei casi, la naturalità è proprio quell’istanza che si vuole contrastare, utilizzando la tecnica medica come strumento contro la morte. La guarigione purtroppo non è sempre un esito scontato, ma esiste la possibilità del fallimento terapeutico e proprio di fronte a questo è necessario avere un ordinamento che lasci possibilità di scelta, perché ancora molte malattie continuano ad avere la meglio sui nostri tentativi, procurando sofferenza inutile e perché, fondamentalmente, rimaniamo esseri mortali. Proprio quest’ultima considerazione dovrebbe essere quel limite percepito che ci fa oscillare, in modo del tutto personale e libero, attorno ai due estremi: tentarle tutte, da un lato, e gettare le armi, dall’altro. Fondamentale sarà il ruolo dei medici nel fornire le informazioni necessarie al paziente e ai familiari al fine di maturare una decisione consapevole. La legge non obbliga nessuno a prendere decisioni in cui non crede, si tratta dunque di uno strumento di tutela e di uguaglianza. La differenza importante è per chi prima vedeva negato il riconoscimento del proprio rifiuto a certe cure, in un contesto di incertezza giuridica.
I presupposti di questa legge
L’articolo 32 della Costituzione, oltre a ribadire che la salute è un diritto, dichiara che i trattamenti sanitari possono essere rifiutati dal paziente (e, fatto ovvio, lo dice dal lontano 1948!), fanno eccezione solo i vaccini, quando obbligatori, e i trattamenti sanitari obbligatori in ambito psichiatrico.
Il codice deontologico dei medici italiani prevede già da tempo, nell’articolo 38, che “il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa”.
La Cassazione nel 2007 aveva sentenziato, per mettere un po’ di ordine nel panorama dell’accanimento terapeutico, che “l’inserimento, il mantenimento e la rimozione del sondino naso-gastrico o della PEG sono atti medici, previsti e attuati nell’ambito e in funzione di una precisa e consapevole strategia terapeutica adottata con il necessario consenso del paziente”. Questa sentenza permetteva di porre fine alla polemica che aveva raggiunto il culmine con il caso di Eluana Englaro, consentendo ad alcuni di affermare che nutrizione e idratazione dovessero essere imposte ai pazienti, indipendentemente dal consenso dei malati.
La nuova legge diventa dunque il tassello finale che mancava a rendere coerente e compatta la giurisprudenza già in atto.
Rifiuto delle cure non è eutanasia passiva
La legge chiarisce, tra i suoi punti, che il diritto di rifiutare le cure non autorizza alcun comportamento volontario del medico che possa cagionare la morte del malato. Si tratta di una presa di posizione chiara contro l’eutanasia, ma anche una presa di distanza dal concetto di eutanasia passiva, secondo il quale il medico che ometta delle cure lascerebbe morire il malato configurando un reato. Con questo provvedimento il medico può lasciare che il malato che ha accettato il decorso fatale della malattia vada incontro alla sua fine. Ciò accadrà senza timore di ripercussioni, ma soltanto dopo che il paziente avrà compreso inequivocabilmente le conseguenze delle sue scelte, basate sull’evidenza che, purtroppo, le strategie terapeutiche conosciute dalla scienza non sono in grado di dirottarlo dall’indomabile agonia della sua malattia mortale. Con questo provvedimento diventa chiaro che il rifiuto dell’accanimento terapeutico equivale all’accettazione degli esiti mortali della malattia. Forse l’eutanasia passiva è un concetto da abolire perché finora ha soltanto infangato il percorso per la libertà di scelta sul proprio fine vita. Rimane allora soltanto l’eutanasia definita “attiva”, in cui l’atto medico procura la morte, ma questa è tutta un’altra storia.
Pamela Boldrin
Pamela Boldrin è dipendente presso ulss6 euganea e docente a contratto presso l’università di Padova. La sua formazione unisce interesse per la scienza medica, da un lato e per la filosofia, dall’altro. Sì è laureata prima in tecniche di neurofisiopatologia a Padova e poi in filosofia a Venezia. Grazie alla bioetica fa dialogare i due rispettivi ambiti: scienza ed etica. È impegnata particolarmente nell’approfondimento di questioni bioetiche nell’ambito dell’”inizio vita”, del “fine vita” e delle neuroscienze cognitive. Scrive anche sulla rivista on line “scienza in rete”.
NOTE:
1. Qui per approfondire il biotestamento in Europa.