Nelle maestose e incantevoli colline dove anche La Chiave di Sophia è nata, nel circondario della provincia di Treviso, si stanno sviluppando efferati crimini contro uomini e umanità. Misteriosi omicidi e terreni che si contaminano, si ammalano e fanno ammalare chi ci vive e ci sopravvive.
Questo il panorama in cui veniamo balzati nell’opera Finché c’è prosecco c’è speranza, in duplice versione di romanzo (dell’autore Fulvio Ervas) e film (del regista Antonio Padovan). E noi, incollati al grande schermo, affascinati dai colori e dai luoghi che l’attento sguardo del regista è riuscito a rendere arte, abbiamo iniziato a riavvolgere la trama cercando di capire chi fosse il colpevole di questo giallo. Un colpevole c’è sempre. E non rimane mai relegato a chi ha effettivamente commesso un reato, ma si profila nell’ombra qualcosa di più vasto. Le responsabilità sono condivise e la trama si infittisce, per questo abbiamo avuto bisogno dell’ironia che costantemente smorzava tematiche comunque profonde, delicate, fondamentali.
Ne usciremo vincitori? Solo per aver trovato il colpevole dei delitti? O dietro a quest’opera si nasconde un messaggio che il nostro territorio grida e ci sussurra, attraverso un libro ed un film che parlano tanto di Treviso, quanto di ogni zona sfruttata e abusata?
La risposta la dovremo cercare tra le righe, facendo venire a galla quell’ispirazione da detective che è in ognuno di noi mentre leggiamo o guardiamo un giallo avvincente.
Siamo quindi andati a intervistare l’autore e il regista per raccogliere altri indizi.
Buona lettura!
Reshoring: un concetto nuovo che si sta sviluppando nel panorama lavorativo e che prevede il ritorno in patria dei processi produttivi delle aziende che invece avevano cercato la loro fortuna all’estero. Finché c’è prosecco c’è speranza sembra che abbia introdotto questo concetto anche nel mondo dell’arte letteraria e cinematografica. Tornare nel proprio territorio e farne terreno di attività lavorativa. Sfruttare le nostre risorse locali per fare la differenza rispetto al resto.
Questa può essere una chiave di lettura della scelta di aver ambientato la trama del romanzo e quindi del film su questo territorio?
AP – In realtà il romanzo è del 2010 ed era già ambientato nelle colline trevigiane, da cui provengo, e dove abbiamo girato il film. Però sicuramente c’è stata una forte e intima mia energia alla base del desiderio che mi ha spinto a cercare un romanzo che parlasse “di casa mia”, arrivando al libro di Fulvio Ervas.
In Hollywood Ending, Woody Allen interpreta un regista che perde la vista a causa di una crisi nervosa. Quando poi la riacquista e rivede sua moglie dopo mesi, ne resta innamorato, le dice “ogni marito dovrebbe diventare cieco per un periodo”. Penso che la stessa cosa sia successa a me, ma con il territorio da dove provengo. Dopo dieci anni a New York sono tornato con l’occhio innamorato del turista, di chi non ci vive tutti i giorni, e quindi si è ancora assopito alla bellezza. Allo stesso tempo però era casa mia, quindi sapevo di cosa andavo a parlare. Spero che tal senso penso che il mio “partire e poi ritornare” sia stato utile a questo film.
Finché c’è Prosecco c’è speranza è un’opera molto radicata nei luoghi e nel territorio che mette in scena. In vista di un’eventuale e futura distribuzione internazionale quali sono, secondo lei, gli elementi che potrebbero far più presa su un pubblico straniero?
AP – Penso che proprio nella sua “piccola” specificità, sia geografica che sociale, la storia raccontata possa diventare universale, e anche interessante. Le problematiche di cui parla il film sono internazionali, e allo stesso tempo abbiamo appoggiato lo sguardo in un angolino di Italia affascinante e ancora relativamente vergine dal punto di vista cinematografico.
FE – Dobbiamo produrre l’idea che anche un paese come l’Italia, fragile sul piano morfologico, e bellissimo, cresce una sensibilità di tutela del territorio, un’attenzione verso il suo uso che consideri la conservazione come un bene fondamentale e, allo stesso tempo, un bene comune sia alle generazioni presenti che a quelle future. Preservare la bellezza e favorire la compenetrazione delle attività umane con la forma, e i limiti, del territorio è un valore universale.
La tematica ambientale è molto forte nel film e nel libro, essendo il nodo cruciale attorno cui si sviluppa la serie di omicidi. C’è un interesse particolare che la ha spinta ad affrontare questo tema? A cosa si è ispirato? A quali eventi/notizie?
FE – Personalmente considero la difesa del territorio, sopra il quale posiamo i piedi e dal quale ricaviamo l’energia e la materia di cui ci nutriamo, l’unica, sensata, possibilità di avere rispetto di sé e degli altri. Ogni attività umana dovrebbe misurarsi con questo principio. Il resto sono follie, i cui effetti esplodono a tempo.
AP – La cosa che più mi ha colpito nelle storie di Fulvio Ervas è la sua lungimiranza nella gestione della nostra storia, che passa inevitabilmente anche attraverso il modo in cui gestiamo l’ambiente. Fulvio vede già quello che vedrebbe un alieno che arriva sulla terra tra 1000 anni, e ci dice dove e cosa stiamo sbagliando. Questo modo di vedere la vita “secolo dopo secolo” invece che “giorno dopo giorno” lo porta ad avere una voce saggia ma leggera. E’ chiaro che nella gestione delle colline del Prosecco, ad oggi, qualche passo falso è stato fatto, e penso che il peccato originale sia proprio la poca lungimiranza.
Il rispetto per il territorio è qualcosa che non si può solo insegnare a parole, ma va trasmesso con emozioni, racconti, storie, vita vissuta e sensibilizzazione. Un libro e un film possono partecipare a quest’opera di cambiamento di mentalità a cui siamo chiamati dalla natura stessa? In che modo?
FE – Completamente d’accordo: c’è bisogno di una narrazione che faccia dell’ambiente un protagonista fondamentale. La nostra isola del tesoro. Naturalmente per avere questo tipo di sensibilità bisogna praticare il rispetto dell’ambiente, altrimenti si perde in profondità e in prospettiva. Credo che costruire, narrativamente, empatia verso chi ha a cuore questo nostro, splendido, pianeta crei un campo di forze, una sorta di “legione” di persone civili, innamorate della vita e del futuro.
AP – L’uomo racconta storie fin da quando è apparso su questo pianeta, e penso che lo facciamo perché sono lo strumento più potente che abbiamo per tramandarci qualcosa, trasmettendo quello in cui crediamo, legando a doppio filo valori e emozioni, perché arrivino in profondità. Il film non ha la presunzione di insegnare, ma penso sia impregnato di quello in cui noi crediamo.
L’idea di girare il film è nata in un club del libro per sole donne e nel film sono molti i personaggi femminili che si ritagliano un ruolo di prim’ordine nella storia. A quale di queste figure è rimasto più legato, una volta terminate le riprese?
FE – Personalmente il personaggio femminile, nel romanzo, a cui ho dedicato più immaginazione e energia narrativa è Celinda Salvatierra, una passionaria combattente per conservare il territorio.
AP – Sono molto legato alle donne del film, in particolare provo molto affetto verso la malinconia che Silvia d’Amico è riuscita a conferire a Francesca, un tratto per nulla scontato dalla sceneggiatura, ma che lei ha saputo catturare con intuito e talento, dando vita a un personaggio forte ma ferito, vero.
In un’epoca monopolizzata da sequel e serie tv, prevede che ci sarà una serializzazione cinematografica anche per l’ispettore Stucky?
AP – C’è qualche discorso in corso… la cosa mi fa piacere perché vuol dire che c’è voglia di conoscere di più i personaggi cui abbiamo dato vita. Non è semplice ma personalmente mi piacerebbe vedere di nuovo Stucky, e se ci dovessero essere le condizioni di fare un bel lavoro non direi di no.
Una delle cose che colpisce maggiormente nel film sono i colori. Colori di una potenza espressiva che esce dallo schermo e investe lo spettatore che si sente attratto e trascinato dentro i panorami della trama. In che modo il libro ha ispirato e aiutato la creazione di questo effetto? Pensi che l’aspetto visivo ed estetico sia molto impattante per colpire una persona?
AP – Grazie. Penso che i colori (sia delle luci della fotografia, che delle sceneggiature) siano uno degli strumenti più importanti del cinema. E’ uno degli aspetti a cui mi piace dedicare maggior attenzione. Rispetto al romanzo, ambientato d’estate, ho voluto azzardare le riprese in autunno, nonostante i rischi metereologici, perché ero convinto che i colori sarebbero stati più adatti alla storia che raccontavamo.
Per trovare una chiave di lettura che vada oltre alla trama del libro e del film, quale potrebbe essere un messaggio che questa storia vuole lasciare ai lettori e agli spettatori?
AP – Al di la della presa di posizione “ambientalista” spero abbastanza chiara, penso che il film (doverosamente, essendo un giallo) parli di giustizia. Giustizia intesa come tema assoluto, “di stato”, verso chi commette crimini, ma anche e soprattutto verso se stessi.
Ho voluto caricare Stucky di un dilemma che nel romanzo non c’era, legato alla storia di suo padre, e che questa particolare inchiesta, dove i cattivi sono i buoni, riporta a galla. Nel monologo finale di Stucky, Beppe è stato bravissimo a comunicare il dolore di una persona che ha ricevuto un torto doloroso ma che al tempo stesso ricorda a se stesso ogni girono che la vendetta non è giustizia.
La speranza a cui si appella il titolo, a cosa si riferisce? Che speranza possiamo continuare a coltivare? Di un cambiamento del rapporto tra l’uomo e il territorio in cui vive?
FE – Inizialmente era ironico: se facessimo tutti delle cose con le bollicine, cioè creative e lungimiranti, si batte la crisi. Ma un altro significato che c’è nel film è: se fai vino buono nel rispetto del territorio il territorio sopravviverà e c’è speranza per le generazioni future.