Mi sono avvicinata al mondo orientale nel modo più classico con cui lo può fare un ragazzino occidentale: tramite i manga e quelli che qui, in modo quasi sprezzante, chiamiamo ancora “cartoni animati”. Eppure, anche da quelle finestre colorate, chiassose e un po’ assurde, filtra chiaramente qualcosa di quella società per molti versi affascinante che è il Giappone. Crescendo mi sono accorta di quale buco ci sia nell’istruzione e nella cultura italiana (ma oserei dire occidentale) sul mondo orientale: dal salto in lungo sul capitolo di storia dedicato alla formazione dell’Islam e all’espansione araba nel VII secolo, sino alla comparsa delle massime di Confucio esclusivamente all’interno dei Baci Perugina. Eppure un confronto curioso e aperto con pensieri e forma mentis diverse a noi occidentali (oggi forse più che mai) farebbe più che bene.
Sono cresciuta e ho studiato architettura e arte, altre discipline in cui s’ignora ciò che sta dall’altra parte del mondo (ma anche sotto di noi). Ho voluto scoprire davvero che cos’è questo zen con cui tutti si riempiono la bocca e così, incrociando l’arte e la filosofia, sono arrivata ai testi del professor Giangiorgio Pasqualotto, esperto di filosofie orientali e per molti anni docente di Estetica e Filosofia delle culture presso l’Università degli Studi di Padova. È stato un grande onore poterlo intervistare e poter accogliere un suo scritto all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello: in questo numero volevamo indagare non tanto il significato di bello quanto piuttosto le esperienze che facciamo della bellezza, vagliare il suo carattere esperienziale e generativo. Nella risposta dell’estetica giapponese, raccontata dal professore, ho trovato lo spunto più interessante e profondo di questa nostra ricerca.
Professore, molti dei suoi libri si propongono come strumenti e invito ad avvicinare culture diverse: basti pensare a Per una filosofia interculturale (Mimesis 2008) o il più recente Alfabeto filosofico (Marsilio 2018), che racconta alcuni concetti filosofici chiave spiegandoli da entrambe le prospettive. Per quale motivo ritiene urgente questa comparazione tra mondo occidentale e mondo orientale e che cosa s’intende per filosofia interculturale?
L’urgenza è data dal fatto che ormai va considerata conclusa l’epoca del predominio assoluto delle culture occidentali, anche perché non possono più vantare primati e monopoli in settori cruciali come quelli delle tecnologie avanzate e degli investimenti finanziari internazionali. Di qui la necessità di conoscere e di confrontarsi con principi e valori diversi da quelli che hanno sostenuto per secoli le culture occidentali. Se questa necessità non viene riconosciuta, l’alternativa sarà fatta di nuovi conflitti, probabilmente assai peggiori di quelli finora sperimentati.
A partire da tali constatazioni, le filosofie occidentali devono innanzitutto cominciare a conoscere approfonditamente quelle orientali; in secondo luogo devono confrontarsi con esse senza pregiudizi, ossia senza più considerarsi superiori, ma aprendo un dialogo costante sui temi cruciali dell’esistenza umana e delle condizioni ambientali che la rendono possibile. Questo dialogo non dovrà limitarsi ad un semplice scambio di opinioni, ma dovrà porsi come un dialogo radicale, ‘socratico’ o – come l’ha denominato Ramon Panikkar – ‘dialogale’, dove nessuno degli interlocutori pretende di possedere, a priori, la Verità. In tal senso l’orizzonte della filosofa interculturale non coincide con la prospettiva della filosofia comparata, ma la include come momento e strumento preliminare.
La sua formazione e il principio della sua vita accademica l’hanno vista impegnata nello studio e approfondimento dei filosofi della Scuola di Francoforte e di Nietzsche. Che cosa l’ha portata da questo alla filosofia orientale?
Durante gli anni ’80 del secolo scorso mi sono convinto che oltre le ‘vette’ – tra loro assai diverse, quasi opposte – raggiunte da Hegel e da Nietzsche, la moderna filosofia occidentale non esprimeva più alcunché di originale. Non solo: anche quando essa ha tentato di farlo, è sempre rimasta a livelli esclusivamente intellettuali. Per un po’ di tempo, quindi, ho smesso di occuparmi di filosofia europea, ed ho cominciato ad esplorare più a fondo due filoni del pensiero orientale che avevo conosciuto superficialmente e frammentariamente: il taoismo filosofico (Dàojiā, 道家) e il Buddhismo in alcune sue fondamentali espressioni: la Scuola Theravāda e le Scuole zen (Rinzai e Sōtō). L’intento principale era quello di scoprire come pensieri astratti possano avere consistenza e significato in relazione a fattori corporei elementari come, per esempio, l’attenzione alla respirazione richiesta in ogni forma di meditazione. Ho potuto verificare come questo intreccio fecondo tra pensiero e corpo, tra riflessione ed azione sia il punto di riferimento basilare di molte pratiche artistiche (ed artigianali) presenti nella cultura giapponese: della calligrafia (shodō), del tiro con l’arco (kyudo), della poesia haiku, della ceramica raku, del bonsai, dell’ikebana, dei giardini secchi (karesansui), del teatro Nō, dell’architettura tradizionale, ecc.
Da studiosa di arte ho letto con molto interesse i suoi studi nel campo dell’estetica, soprattutto orientale, che ha anche gentilmente raccontato nel suo contributo per la nostra rivista La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello. In un mondo sempre più globalizzato, ritiene possibile il mantenimento di una fruizione del bello così personale ed “esistenziale” come da tradizione (nello specifico) giapponese?
Non solo penso che sia possibile, ma ritengo che sia necessario, proprio per resistere e sopravvivere alle spinte sempre più violente verso ogni tipo di omologazione. Il problema sta nel fatto che tali spinte sono talmente forti e pervasive che tentano di appropriarsi anche dei prodotti creati sulla base delle tradizioni spirituali d’Oriente, e cercano con ogni mezzo di trasformarli in oggetti di consumo di massa. Il grave è che, in questa trasformazione mercantile, opere e manufatti perdono il loro ancoraggio ai pensieri ed alle discipline da cui e per cui sono nati: in tal modo diventano oggetti senza radici, alla pari di una basilica di S. Pietro in miniatura usata come fermacarte, o degli affreschi della Cappella Sistina usati come sfondo di una palla di vetro con neve finta.
L’uomo occidentale sembra apparentemente volersi avvicinare sempre di più alle tradizioni orientali, a volte tuttavia scivolando in pratiche definite “New Age” che sembrano banalizzare il senso profondo con il quale nascono: dallo yoga per bambini al proliferare dei mandala da colorare fino ai manuali per il riordino; in generale si percepisce un certo abuso del termine zen, associata ad un’infinità di cose diverse e a volte poco attinenti (persino una linea di vestiti per la pratica dello yoga ad esempio). Secondo lei a cosa è dovuta questa tensione spasmodica all’orientalismo?
È vero, diverse suggestioni orientali condizionano oggi molti aspetti delle mode occidentali (dai cibi agli abiti, dall’arredamento all’oggettistica); ma questo, in qualche misura, è sempre accaduto: basti pensare alle suggestioni indiane e cinesi nella Francia e nell’Inghilterra del XVIII secolo, o a quelle giapponesi nella Francia di fine ’800. Del resto, in tempi e per aspetti diversi, è accaduto anche il contrario con l’influsso dell’Occidente nei paesi orientali: basti pensare all’introduzione del cemento armato in tradizioni architettoniche abituate all’uso quasi esclusivo del legno, in particolare del bambù; o ai modi occidentali di vestire, di costruire macchine e meccanismi elettronici. Senza parlare degli influssi occidentali più macroscopici come l’economia capitalistica, il parlamentarismo e il socialismo. Questi fenomeni di influsso reciproco costituiscono la normalità dei rapporti tra culture diverse: nessuna cultura si è mai sviluppata allo stato puro, senza contaminarsi. Certo, le semplificazioni alla New Age possono far sorridere o anche irritare. Ma è anche probabile che, tra migliaia di individui ipnotizzati dal suono di un mantra o dalla visione di un mandala, ci sia più di uno che comincia ad approfondire i loro significati e le loro funzioni, scoprendo le straordinarie visioni del mondo da cui provengono.
Parallelamente uno studio serio e approfondito (anche all’interno delle università) della cultura orientale non sembra particolarmente incoraggiato e ogni tipo di ricerca e di sapere ha il suo perno nel mondo occidentale. Riterrebbe utile che nelle varie facoltà fosse inserito come obbligatorio l’insegnamento della cultura orientale? Intendo letteratura indiana/cinese/giapponese/coreana per le facoltà di lettere, arte indiana/cinese/giapponese/coreana per i beni culturali e così via.
Questo è un problema assai complesso. Lo studio di un argomento a livello universitario comporta lo specialismo. Quindi, ad esempio, lo studio della filosofia indiana o cinese comporta, prima di tutto, lo studio delle lingue in cui sono state scritte le opere di quelle filosofie. Quindi, concretamente, in un Dipartimento di studi filosofici non si potrebbe rendere obbligatoria la conoscenza delle filosofie orientali senza rendere nel contempo obbligatoria la conoscenza delle lingue orientali corrispondenti. Ciò detto, va però denunciato il fatto che, per esempio, negli insegnamenti universitari di Storia della filosofia non si fa mai nemmeno cenno all’esistenza di pensatori indiani o cinesi, con il presupposto e nella presunzione che la storia della filosofia sia soltanto storia della filosofia occidentale. Lo stesso vale per la storia delle letterature occidentali: per esempio, quando si parla di letteratura medievale, non si ricorda, nemmeno a titolo informativo, che uno dei capolavori della letteratura mondiale, Genji monogatari, è stato scritto in Giappone da una donna, Murasaki Shikibu, all’inizio dell’XI secolo.
Il buddismo ha tra i suoi fondamenti il concetto di vacuità. Che significato può assumere e quale prospettiva può dare questa visione all’interno della cultura odierna basata invece sull’abbondanza?
Il termine ‘vuoto’ traduce in realtà il termine buddhista anattā che significa letteralmente ‘non sé’, ovvero “privo di autosufficienza”. Quindi quando nel Dhammapada si trova scritto “tutte le realtà sono vuote” ciò significa che nessuna realtà può esistere in modo isolato. Questo significato fondamentale si conserva anche nel buddhismo più tardo (buddhismo Mahāyāna) che usa i termini śūnya (vuoto) e śūnyatā (vacuità). Pertanto il ‘vuoto’ buddhista non indica il nulla o l’assenza di tutto, ma la relatività di ogni cosa, nel senso che ogni cosa, per esistere, ha bisogno di qualcos’altro di diverso da sé. L’interesse che tale idea può avere per noi oggi è dato dal fatto che stiamo da tempo verificando i disastri umani ed ambientali a cui conducono visioni del mondo fondate su idee opposte a questa, come quelle di ‘identità’, ‘purezza’, ‘autonomia’, ‘divisione’, ‘separazione’ che sono tutte – in modo più o meno consapevole – alla base di ogni sorta di conflitto, da quelli di carattere personale a quelli di natura sociale e politica.
In uno dei suoi ultimi libri ha avuto modo di spiegare come ci siano delle somiglianze molto evidenti tra il metodo socratico e quello utilizzato dai maestri zen. In cosa consiste questo interessante parallelismo tra due giganti del pensiero geograficamente molto distanti?
La somiglianza consiste nel valorizzare al massimo l’idea del “sapere di non sapere”, ovvero un atteggiamento critico e non dogmatico nei confronti di ogni verità. Socrate ha insegnato questo mediante il suo incessante porre domande; i Maestri delle tradizioni zen mediante l’uso di paradossi linguistici (kōan) e di comportamenti paradossali.
In che modo secondo lei la filosofia può avvicinarsi e mostrare la sua decisiva importanza per la vita quotidiana di ciascuno di noi e della collettività? Ritiene che le discipline orientali siano state in grado di mantenere con più evidenza questa aderenza alla vita quotidiana?
La filosofia occidentale dovrebbe ritrovare l’equilibrio tra le idee e il corpo, tra il pensare e l’agire ritornando alle proprie radici greche, in particolare a quelle di Eraclito e di Epicuro. Questa direzione, nell’Europa contemporanea, è stata indicata con forza da Nietzsche, ma la sua è rimasta una testimonianza drammaticamente fallita.
Non c’è dubbio che in Oriente questo equilibrio è invece perdurato a lungo ed è ancora presente, anche se appare sempre più minacciato da alcuni modelli di pensiero e di azione importati dall’Occidente. E’ tuttavia da precisare che si è sviluppato (e si sta ancora sviluppando) un movimento in senso contrario, ossia un diffuso influsso di conoscenze e di pratiche orientali nelle culture occidentali (ovviamente con i rischi di superficialità e di commercializzazione che comportano simili trasposizioni).
La domanda forse più difficile di tutte: che significato ha per lei il termine filosofia, detto in due parole?
Esercizio critico ed autocritico della ragione.
Non posso che ringraziare di cuore il professore per il suo tempo e gli interessanti spunti di riflessione offerti.
Giorgia Favero
[Il ritratto in copertina è stato fornito dall’intervistato]