Home » Rivista digitale » Filosofia pratica » Esistenza » La solitudine dell’uomo-dio tra Harari e Bauman

La solitudine dell’uomo-dio tra Harari e Bauman

«Siamo più felici?». È questa una delle domande che si pone Yuval Harari nella sua Breve storia dell’umanità. In altri termini: il progresso materiale tende al miglioramento delle condizioni di vita della specie Homo? Vari tentativi di risolvere questo quesito sono stati fatti dalle scienze esatte, con numerosi studi che hanno cercato di valutare quali fattori contribuiscano all’incremento del benessere psicologico dell’uomo. Da un punto di vista filosofico, però, la risposta non può essere binaria, ma deve prendere in considerazione gli effetti culturali e sociali dello sviluppo tecnologico.

Occorre, dunque, analizzare gli effetti dei dirompenti mutamenti tecnologici – dal cannocchiale a Internet – che negli ultimi cinque secoli hanno stravolto in profondità lo stesso significato di “essere umano”. Come ha notato lo stesso Harari, «la scienza e la Rivoluzione industriale hanno conferito all’umanità poteri sovrumani» (Y.N. Harari, Sapiens. Da animali a dèi, 2017). Dalla Rivoluzione scientifica – con la perdita della centralità dell’uomo all’interno del cosmo e della progettualità divina – alla crisi del Positivismo – con il pensiero dirompente di Einstein, Freud, Nietzsche – il millenario umanesimo socratico-cristiano è stato spazzato via dalla morte di ogni dio e dalla fine di ogni costruzione universalistica. Grandi impalcature ormai inefficaci in un mondo costitutivamente irriducibile alla misura della specie che lo domina.

Alle impostazioni organicistiche, in grado di inserire il singolo in narrazioni finalistiche pregne di senso, si è – progressivamente e paradossalmente – affermato il “mito” dell’ego, la “religione” dell’uomo-dio. Una “ideologia” di cui esistono infinite copie e infiniti idoli, uno ciascuno per ogni abitante del globo. Dopo aver ucciso tutte le divinità, il pensiero umano ha elevato al centro del mondo l’ego, il singolo-privato. «Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere» ha scritto Harari.

«Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno» (Harari, op. cit.).

Viviamo una condizione di frammentazione, la solitudine monadica di un individualismo che è assurto a feticcio di un intero sistema socio-economico.

Tutto questo è intimamente connesso con la domanda sulla felicità. Infatti, al «miglioramento delle condizioni materiali avvenuto nel corso degli ultimi due secoli» ha fatto da contraltare lo sgretolamento delle strutture sociali e culturali capaci di indicare una meta al faticoso peregrinare dell’uomo, con la conseguenza che ci troviamo «in un mondo sempre più solitario di comunità e famiglie in dissoluzione» (Harari, op. cit.). Se la felicità – in senso epicureo – è l’assenza di sofferenze, la domanda diventa ineludibile:

«Siamo diventati i signori della terra che ci sta intorno, abbiamo incrementato la produzione alimentare, costruito città, fondato imperi e creato reti commerciali assai diffuse. Ma abbiamo forse diminuito tutte le sofferenze del mondo?» (Harari, op. cit.).

Non si tratta del vagheggiamento anti moderno per una (mai esistita) età dell’oro e dell’ingenuità. È indubbio che l’incremento delle conoscenze umane, quelle scientifiche in testa, abbia concretamente contribuito ad alleviare le sofferenze fisiche di milioni di persone. Ciononostante, quelli che Bauman chiama «gli effetti dell’individualismo dilagante che permea da cima a fondo la “non-società” neo-liberale» (Z. Bauman, La Solitudine del Cittadino Globale, 2003), hanno eroso le grandi narrazioni mitiche – nel senso ampio di  valide per una comunità. Come conseguenza, sottolinea Bauman, «il mondo si presenta come una versione mostruosamente obesa, gigantesca, di Internet: […] tutti si gettano nella mischia universale, ma nessuno sembra consapevole delle, conseguenze, e men che meno in grado di controllarle. […] Si gioca un gioco senza arbitro e senza regole decifrabili cui ricorrere per convalidare i risultati. […] Ciascun giocatore gioca un proprio gioco, ma nessuno sa con esattezza di quale gioco si tratti» (Bauman, op. cit.).

Il “disincantamento del mondo” ha così decapitato tutti gli idoli delle narrazioni di senso, consacrando l’uomo a efficiente padrone della natura. E da questa altura l’essere umano ha incoronato se stesso divinità assoluta nei riti dell’egolatria. Una nuova narrazione, non mitica perché non condivisa ma individualizzante, specchio di un sistema sociale ed economico in cui l’ego viene prima di tutto. Il risultato è una società in cui «la vittima principale della teoria e della pratica neo-liberali è stata proprio [la] solidarietà» (Bauman, op. cit.), nella quale siamo più soli. E forse più infelici.

 

Edoardo Anziano

 

[Photo credit Marc-Olivier Jodoin via Unsplash]

copertina-abbonamento2021-ott

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!