È la primavera del 2015, quando Paolo Rumiz, insieme a un manipolo di amici, parte da Roma alla volta di Brindisi per un’impresa eccezionale, il sogno di un visionario: ripercorrere l’Appia antica, ricalcando le orme dell’iter brundisinum intrapreso, nel 37 a.C., dal poeta Orazio con Virgilio e Mecenate. La cronistoria del viaggio è l’intenso libro di Rumiz dal titolo Appia (2016), un dettagliato reportage dei luoghi e delle emozioni, ma soprattutto l’appassionato resoconto di una missione: «ritrovare» la Regina Viarum, facendola «riemergere sotto le suole», ripercorrendola «coi piedi, nobilissimi organi di senso». (Appia, Feltrinelli, 20161). La decisione dell’andare “errando” è alimentata da una forte esigenza gnoseologica: Rumiz sa che «per capire bisogna andare a piedi», perché «chi viaggia rasoterra non ha difese, ma vede la verità dei luoghi».
Così, zaino in spalla e senza auto d’appoggio, assecondando la vocazione nomade insita nella radice del suo cognome, Rumiz dà inizio all’atto eversivo dell’attraversamento a piedi dell’antico tracciato di basalto, con il fare dell’archeologo che è appagato dal vivido vedere, dal toccare con mano, e con la determinazione di chi si sente investito di «un mandato degli antenati da assolvere».
L’intero viaggio è un’avventura magnifica e terribile insieme, che si sviluppa tra i due poli dialettici dell’incanto e dell’indignazione: ripercorrere l’Appia antica è come immergersi in «un immenso museo all’aperto» di bellezze paesaggistiche e monumentali. Tuttavia l’incanto da subito deve convivere con l’indignazione alla vista di tanta bellezza soffocata e oltraggiata da brutture, scempi e soprusi. Appena fuori la Capitale, le terre di Gomorra e dei fuochi delineano lo scenario di un desolante «Far West», di «un pugno allo stomaco»: monumenti semidistrutti giacciono abbandonati in mezzo a campi incolti; cartelloni elettorali contendono lo spazio ad altari votivi, abitazioni private si fanno posto all’interno di un antico anfiteatro, una secolare iscrizione funeraria sormonta la porta di un bar, tra antichi ruderi troneggia una stazione di servizio. Si scorgono «pezzi di lastricato romano disinvoltamente esposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti medievali piazzati a segnare il confine tra poderi, ville con sontuosi musei illegali», testimonianze del malcostume, di una cinica indifferenza, di tollerate illegalità e di un indiscriminato abusivismo edilizio.
Inoltre, i coraggiosi viandanti devono «combattere duramente fin dal primo miglio per conquistarsi la bellezza», sobbarcandosi di «un po’ di lavoro sporco», perché se in alcuni tratti l’antica via è visibile e facilmente percorribile, in altri per recuperare ciò che il tempo e l’incuria hanno sepolto devono creare «buchi nella rete» di filo spinato, avventurarsi in «guadi selvaggi», sfoltire rovi a «colpi di roncola», ma anche desistere, perché «a volte per restituire l’accessibilità al tracciato dell’Appia non sarebbero state sufficienti le ruspe». La missione diviene il viaggio dell’amara presa di coscienza dello spaventoso vuoto di memoria della nazione nei confronti della madre delle strade europee, e della triste constatazione che «a dilapidare il Paese non sono stati i barbari, ma gli italiani stessi».
La dialettica bellezza-bruttezza ricorre negli incontri casuali con la gente dei luoghi attraversati e vissuti. I viandanti sono sorpresi dall’inattesa generosità di semplici agricoltori, dalla pratica saggezza di pastori filosofi, dalla sincera fede di pie donne e dalla spiazzante ospitalità di ostesse che rallegrano cuore e palato con i sapori della tradizione. Il viaggio riserva anche spiacevoli corpo a corpo con automobilisti maleducati e albergatori malfidenti. E addentrarsi ne «l’osso dello stivale» offre incontri con occhi mesti e volti rigati dalla rassegnazione di uomini che, ripetendo il leitmotiv «le colombe scappano i corvi restano», denunciano il destino, oramai passivamente subito, di un Sud che invecchia, perché privo di prospettive per i giovani.
Tra i rassegnati c’è chi, però, ha deciso di resistere e reagire: un esercito di resilienti sinceramente innamorati del suolo natìo, che riaccendono un’inattesa e ottimistica speranza. Sono intellettuali che, a dispetto dei tanti addii, hanno deciso di ritornare al Sud per raccontare in musica e in prosa la bellezza della loro terra, e battagliere archeologhe, «le studiose delle pietre, temute più della peste per l’intralcio che rappresentano al mercato degli appalti», che, titani nel deserto dell’indifferenza, guerreggiano in difesa della «bella donna vestita di stracci».
Qui a Rumiz si palesa il vero senso della sua missione: assumersi il dovere civico di raccontare per scuotere le coscienze. Non c’è solo il Colosseo, «l’Hollywood d’Italia». La realtà italiana è fatta di tante piccole meraviglie, sparse su tutto il territorio e custodite nello scrigno prezioso dell’Appia antica.
Nell’Italia lacerata dalla forbice dei divari, quel «filo d’Arianna», ripercorso da Rumiz lungo lo stivale, diviene un monito a gettare il seme di qualcosa di duraturo, una prospettiva per il Sud e un nuovo senso di appartenenza e d’unità, un’esortazione a creare un progetto comune: ripristinare l’antica via, facendone una sorta di «Cammino di Santiago» laico e tutto italiano.
Oggi, a distanza di otto anni da quel viaggio, la Via Appia è stata candidata a entrare nella Lista del Patrimonio Mondiale Unesco.
NOTE
1. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da quest’opera.
[immagine tratta da Unsplash]