Piaccia o non piaccia, il dolore fa parte della vita. Ognuno passa necessariamente attraverso esperienze difficili, che come tali ci mettono alla prova. È nel dolore che si cresce. Ciò che ci fa acquisire consapevolezza di noi stessi, che determina la nostra postura nei confronti della vita, è quello che Hegel chiamerebbe il lavoro del negativo, ossia quelle esperienze nelle quali tocchiamo con mano i nostri limiti, là dove ci troviamo messi di fronte alle nostre debolezze.
L’esperienza dei nostri limiti è un fenomeno a sua volta doloroso, perché ci rendiamo conto del fatto che non siamo quello che vorremmo essere. Cioè: come abbiamo un’idea degli altri, ci facciamo un’idea anche di noi stessi. Questa immagine che abbiamo di noi è generalmente positiva (salvo in alcuni casi o in alcuni momenti), e lo scoprire che non ne siamo all’altezza è per noi fonte di sofferenza.
La sofferenza è per sua natura spiacevole, poiché la sua funzione fisiologica è quella di avvertirci di un pericolo per la nostra sopravvivenza, come banalmente accade nel caso delle sofferenze fisiche. Di conseguenza, la nostra reazione naturale di fronte alla sofferenza è la fuga. Questo vale anche nel caso della possibilità della sofferenza: la sola idea che una certa situazione potrebbe farci male ci porta automaticamente al volerla evitare a priori.
La situazione ci si presenta ora nella sua paradossalità. Ciò che ci insegna ad affrontare le esperienze dolorose sono queste stesse esperienze, perché comprendere ciò che siamo è il punto di partenza per lavorare su di noi. È quindi opportuno non fuggire il dolore, ma nel momento in cui emerge starci assieme e capire di che cosa è sintomo, cos’è che ci fa stare male. Il dolore infatti (si pensi ancora una volta al dolore fisico) ci avverte della nostra vulnerabilità. Trovare l’origine del nostro dolore è dunque ciò che noi chiamiamo imparare su di sé. Tuttavia, come si è detto, rifuggiamo naturalmente il dolore, e questo costituisce il più grande ostacolo alla conoscenza di ciò che siamo. Oggi, poi, più che mai viviamo in un mondo del divertissement: tutto attorno a noi è diventato un’industria dell’intrattenimento che non solo ci offre, ma ci lancia quasi addosso una miriade di modi per distogliere lo sguardo da noi e distrarci dal dolore, perché a tutto siamo disposti, pur di non soffrire. Ma la fuga dal dolore altro non è che fuga da noi stessi. Di conseguenza, la distrazione è sinonimo di alienazione. Non sembra, ma il rischio che corriamo fuggendo il dolore, oltre a quello di precluderci a priori moltissime possibilità perché non ci mettiamo mai in gioco, è di non essere in grado di imparare mai qualcosa su di noi. In questo modo, di fronte alle difficoltà continueremo ad andare in crisi, a non saper cosa fare, o a fuggire, rifiutandoci di prenderci le nostre responsabilità. Ma come possiamo fare per essere in grado di guardare negli occhi ed affrontare a testa alta questi momenti difficili?
Nelle sue opere, Nietzsche parla della sofferenza a pié sospinto. In particolare, nella Gaia scienza vi è un frammento in cui egli mette in luce l’incapacità dell’uomo moderno di sopportare anche soltanto il pensiero del dolore:
«Oggi si odia il dolore molto più di quanto non facessero gli uomini di una volta e se ne fa un gran dir male, molto peggio di quanto non si sia mai fatto: anzi la stessa presenza del dolore ci appare come un pensiero a malapena tollerabile» (F. Nietzsche, Conoscenza della pena, in La Gaia Scienza, Adelphi, 2022, p. 95).
Questa intollerabilità del dolore è oggi forse estesa a tutto quanto è in generale sgradevole: lo sforzo fisico, la fatica, la noia (non sappiamo più annoiarci!) le sensazioni della fame e della stanchezza, ed abbiamo sempre a portata di mano un diversivo in grado di deviare la nostra attenzione da ciò che stiamo vivendo.
Che possiamo fare? Il filosofo tedesco conclude il suo frammento offrendoci un interessante rimedio alla nostra condizione, per imparare a sopportare il dolore. Dice: «Il rimedio contro “la pena” ha un nome: pena» (ibidem). Insomma, forse dovremmo metterci in testa una volta per tutte che la vita è anche dolore, e non ha alcun senso volerne una priva. Forse dovremmo anche cercare di distingue ciò che è vero dolore dalla nostra incapacità di sopportare le piccole fatiche quotidiane, in modo da liberarci finalmente di un certo atteggiamento allarmista verso circostanze che, in fin dei conti, non sono poi così gravi. Ma soprattutto, quello che più conta è sviluppare una certa volontà di imparare dalle esperienze, qualsiasi esse siano, perché da tutto ciò che abbiamo intorno possiamo imparare, anche da ciò che sembra più difficile. In fin dei conti, Nietzsche stesso, in apertura alla Gaia scienza, pone questo frammento di Ralph Emerson: «Per il poeta e per il saggio tutte le cose sono amiche e benedetta, ogni esperienza è utile, ogni giorno sacro, ogni uomo divino» (ibidem).
NOTE
[Photo credit Road Trip with Raj via Unsplash]