Abbiamo incontrato il professor Giovanni Boniolo durante una presentazione del suo libro presso la libreria Lovat di Villorba (Treviso) lo scorso luglio e abbiamo avuto il piacere di intervistarlo e interagire anche con il pubblico in merito agli argomenti del suo libro.
Giovanni Boniolo ha conseguito prima una laurea in Fisica, nel 1981 e poi Filosofia, nel 1985, entrambe all’Università di Padova. Fino al 1992 ha insegnato “Matematica e Fisica” negli istituti superiori di Padova e come docente a contratto presso la LUISS di Roma e l’Università di Padova. Ha intrapreso la carriera universitaria divenendo, nel 2001, Professore ordinario di “Logica e Filosofia della scienza”. Ha lavorato presso l’Università di Padova, all’Università di Milano e all’Università di Ferrara.
È Ambasciatore Onorario della Technische Universität München, dove è anche Alumnus dell’Institute for Advanced Study. Si è occupato prima di filosofia della fisica, poi di filosofia della medicina e della biomedicina, di etica della ricerca e della pratica clinica, di filosofia della scienza generale, di teoria delle decisioni individuali e collettive, di educazione alla libertà.
È membro e consulente di riviste, case editrici e istituti culturali nazionali e internazionali.
Il suo lavoro è testimoniato da circa 20 fra monografie e curatele (pubblicate anche per Cambridge University Press, Palgrave, McMillan, Springer, Mimesis, Raffaello Cortina, Garzanti, Bollati Boringhieri, Einaudi) e da circa 240 saggi pubblicati su riviste internazionali con arbitraggio. Ultimamente ha pubblicato: L’educazione liberale. Le arti del Trivio per il XXIesimo secolo (Mondadori Università) e Scienza, pseudoscienza, società. Difendersi dalle fake news e imparare a fare scelte informate (Zanichelli).
Professor Giovanni Boniolo, è recentemente uscito per Mondadori il suo ultimo libro dal titolo L’educazione liberale. Le arti del Trivio per il XXIesimo secolo, un lavoro in cui lei torna a parlare di un argomento prezioso qual è la conoscenza. Nel suo lavoro sottolinea i problemi della società attuale, una società in preda alla disinformazione, che soffre di analfabetismo funzionale. Insomma, un’incapacità di gestire la conoscenza, nonostante gli strumenti non manchino. Ci racconta un po’ questa situazione?
Esiste una lunga tradizione in ambito occidentale, che risale alla Grecia antica, che si è battuta per la necessità di fornire, durante il processo formativo, strumenti concettuali affinché chi se ne impadroniva potesse crescere libero.
Nel 1947 la scrittrice di gialli Dorothy L. Sayers tenne una conferenza a Oxford in occasione di un Vacation Course in Education. Quella conferenzasi intitolava Gli strumenti persi dell’educazione (D.L. Sayers, The Lost Tools Of Learning, CrossReach Publications, Waterford, 2017.). La Sayers si lamentava del fatto che viviamo in una società in cui tutti parlano senza sapere di cosa stanno parlando e non vi è più la capacità di ascoltare le ragioni dell’altro. Che cosa si può fare, si chiedeva? Lei suggerisce di tornare al Medioevo, quando l’istruzione era molto diversa da oggi, si pensi che l’università iniziava verso 14 anni e che vi erano tre indirizzi: giurisprudenza, medicina e teologia. Tuttavia, il punto interessante è che prima di affrontare una di queste queste discipline si passavano 4-5 anni a studiare soprattutto le arti del Trivio: logica, retorica e grammatica. La logica come arte del ragionare correttamente, la grammatica come arte dello scrivere corretto e la retorica come arte del disputare corretto. Perché oggi non insegniamo più ai nostri studenti a pensare in modo corretto? Senza questi strumenti concettuali è impossibile comprendere la differenza tra conoscenza buona e la pseudoconoscenza, soprattutto oggi che abbiamo davanti agli occhi un quadro piuttosto evidente di analfabetismo funzionale, definito nel 1958 dall’UNESCO come la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità (UNESCO, Records of the General Conference. 20th Session, Vol. 1. Paris, 1978). L’idea del libro è di argomentare a favore della necessità di reiniziare a insegnare questi strumenti, anche se ripensadoli attualizzandoli.
Dunque siamo una società cognitivamente fragile?
Oggi siamo di fronte a una sorta di sindrome della fragilità conoscitiva, ossia a una incapacità di distinguere conoscenze vere da pseudo-conoscenze. Nell’ambito del Covid abbiamo potuto vedere anche in televisione prendere parola persone disinformate, non esperte sul tema, con l’idea di persuadere l’uditorio, sovente usando fallacie argomentative. Come sancito orami da tempo da importanti istituzioni internazionali (per es. la Banca Mondiale e l’UNESCO), noi viviamo in una società della conoscenza basata sulla capacità di recuperare e usare informazione (ossia notizia valida o validabile). Tuttavia, esiste una profonda divisione conoscitiva tra chi sa recuperare e gestire tale informazione per vivere (e morire) meglio, e tra chi non la sa né recuperare né gestire e vive (e muore) molto peggio. Ecco perché occorre riprendere gli strumenti: per rendere l’individuo nuovamente capace di liberarsi da pesudo-conoscenze e capire che sia informazione e come usarla.
E scopriamo che diventa molto utile guardare al nostro passato, soprattutto a quello della nostra tradizione europea.
Intorno al VI secolo a.C. in Atene comincia a diffondersi l’idea su cui poi si formerà la concezione democratica, ossia che tutti i cittadini avessero il diritto di esprimersi nelle assemblee decisionali: ossia vi era l’isegoria. Isegoria, però non significava parlare a vanvera, ossia isegoria non equivaleva alla parresia, che invece era avversata in quanto pericolosa per la comunità. Oggi appare ingigantito questo pericolo: troppi parlano senza sapere, senza dare ragioni sensate, elargendo i propri pregiudizi morali, invece che argomentando chiare ragioni. Dobbiamo noi dare ai nostri figli gli strumenti per riconoscere a chi affidarsi e per capire che cosa è conoscenza. Solo in questo modo potranno vivere bene e liberi. D’altronde, questi strumenti fanno parte della nostra tradizione anche se ce ne siamo dimenticati e non li insegnami più. Per fortuna c’è la crescente moda, importata dal mondo anglo-sassone, del critical thinking, ma che altro non è che logica di base e teoria dell’argomentazione che ogni studente medievale conosceva. Sempre meglio che niente!
Il nostro passato contiene le risposte per il nostro futuro, anche se le abbiamo tralasciate nei nostri pacchetti di insegnamenti. Preparare e fornire strumenti propedeutici alla conoscenza adesso è sottovalutato e si vuole specializzare il più possibile. Questo lavoro, che dovrebbe cominciare dai genitori, poi dovrebbe continuare soprattutto nella scuola. E invece?
Nella mia formazione di fisico, all’università, mi hanno insegnato a fare dimostrazioni di teoremi senza mai spiegarmi cosa sia una dimostrazione. Poi ho studiato filosofia; qui mi insegnavano la storia della filosofia ma mai mi hanno insegnato a pensare filosoficamente. Ho dovuto fare un percorso mio, guardando nel passato, ad esempio agli anni ’50, quando ancora si insegnavano logica e retorica. Diventando docente io stesso, ho iniziato a insegnare proprio questi strumenti critici, anche se agli occhi di molti miei colleghi padovani sembrava che io stessi perdendo tempo perché non raccontavo di Kant o di Hegel.
Per molti anni poi ho insegnato nei corsi di medicina e la mia materia trattava il pensiero critico in ambito clinico. Insegnavo come si crea una diagnosi, come possono esserci errori di ragionamento, come funziona la metodologia diagnostica, per la quale si deve necessariamente capire la statistica. Questo è un punto molto importante perché ormai la probabilità e la statistica sono elementi necessari per la formulazione della diagnosi e della prognosi. . Anni fa un articolo uscito su Annals of Internal Medicine denunciava che il 76% degli oncologi clinici americani non capiva la statistica. Ma allora come possono spiegare al paziente la probabilità o meno di sviluppare un cancro? Pensiamo ad Angelina Jolie o Bianca Balti che hanno deciso di avere la mastectomia completa in seguito alla loro condizione di mutazione al gene BRCA1, (che aumenta con l’avanzare dell’età la possibilità di sviluppare il tumore alla mammella). Sulla scia della visibilità di queste donne famose molte donne con la loro condizione hanno optato per l’asportazione, ma siamo sicuri che tutte avessero ricevuto una chiara spiegazione del significato statistico della possibilità? Insomma, è fondamentale capire la probabilità per sapere poi come “giocarsela”, per capire cosa fare della nostra vita e per vivere in modo consapevole l’epoca in cui abitiamo.
La proposta che lei fa nel suo ultimo libro è quella del trivium rivisto. Ci racconta un po’ di che cosa si stratta?
Il Trivium che propongo per il tempo in cui viviamo prevede la logica assieme con la retorica, la metodologia e infine la probabilità con la statistica. Logica e retorica consentono di avere gli strumenti argomentativi utili a giustificare una posizione o di contro-argomentare, in pratica, a trovare delle giustificazioni a ciò che si dice, sapendo in base alla materia quale argomentazione è appropriata. Ci sono argomenti a priori, c’è l’analogia, ma nella scienza, per esempio, l’argomentazione è sempre a posteriori basata sui dati di un esperimento o di un’osservazione. Galileo col telescopio poté vedere le “macchie solari” e così argomentare empiricamente la tesi che il cielo non è incorruttibile, come diversamente sosteneva la Chiesa. Tutte le argomentazioni di scienza medica sono a posteriori, ma se ci si volge all’etica, queste non valgono più.
La metodologia, invece, consente di comprendere come le varie forme di conoscenza si strutturano, sono caratterizzate e si differenziano tra loro. Insomma, consente di capire che cosa è scienza e che cosa non lo è, che cosa è religione e che cosa è superstizione, ecc.
Da ultimo ho inserito la probabilità e la statistica che, come già accennato, sono fondamentali per capire i dati, governare le nostre vite e aiutarci a destreggiarci in un mondo governato dall’incertezza.
L’incapacità di distinguere le diverse forme di conoscenza può essere molto pericolosa e il campo della salute è emblematico in questo. Lei ha già citato l’esempio della comprensione del significato della statistica nella valutazione del rischio di ammalarsi, ma anche capire come funziona la metodologia scientifica è fondamentale perché ancora oggi spesso ci si affida alla pseudoscienza per curarsi.
Certo, capire la metodologia significa andare a fondo del problema se ciò che abbiamo davanti è conoscenza oppure no. Prendiamo il cosiddetto “metodo Hamer”, dal nome del medico tedesco che sviluppò l’idea che il cancro fosse legato allo stress, divulgò le sue idee e venne cacciato dall’ordine dei medici tedeschi. Nonostante non ci sono prove a sostegno di questo “metodo”, esso è seguito da molte persone e non mancano nella nostra cronaca casi di pazienti morti per aver rifiutato le cure scientifiche in nome di queste pratiche. Qui capire che cosa sia il metodo scientifico avrebbe permesso, a una persona razionale, di capire che il “metodo Hamer” era pseudo-conoscenza. Lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’omeopatia, che vide la nascita nella prima metà del XIX secolo, proprio quando si collocano i lavori di Amedeo Avogadro le cui scoperte mostrano la vacuità scientifica di tale pesuo-conoscenza.
Sapere di metodologia, consente anche comprendere che la scienza arriva fino a un certo punto e afferrare questo “certo punto”.
Insomma, senza strumenti conoscitivi si la vita peggiora sicuramente perché non si hanno quelle competenze che sono necessarie per affrontare la sua complessità odierna.