C’è sicuramente qualcuno tra noi che fatica ad apprezzare la bellezza di ogni giornata. La cultura e i mezzi di massa ci assediano di storie di successo, incredibili cambi di vita, viaggi ai confini della terra, con il risultato che probabilmente ci sentiamo grigi e stretti all’interno del nostro menage quotidiano. Si tratta di una tendenza riscontrabile anche in altre epoche storiche e anche in quei casi ci sono state voci che hanno cercato di uscire dal coro. Jane Austen scriveva romanzi sulla tranquilla vita di campagna in un periodo in cui dominavano la letteratura gotica, le grandi avventure, romanzi dagli impetuosi intrighi sessuali, e per questo non è stata in larga parte capita, allora come adesso. E non perché non avesse materiale avventuroso da cui trarre ispirazione: la sua vita è stata attraversata da rivoluzioni storiche e dall’inizio del colonialismo indiano, aveva due fratelli che hanno viaggiato nel mondo e combattuto battaglie ancora oggi ricordate, nonché una cugina sposata con un nobile francese poi ghigliottinato. Invece la sua lezione di vita è ancora oggi valida e si traduce in un invito all’osservazione minuziosa della propria quotidianità per rintracciarne i motivi che la rendono non solo degna di essere vissuta, ma persino felice.
Il romanzo chiave in questo senso è Emma (1815), la cui protagonista è del tutto simile a noi, ovvero snob e cieca rispetto alla propria quotidianità. Come si legge nell’incipit, Emma Woodhouse è «bella, intelligente e ricca, con una dimora confortevole e un carattere felice […], sembra riunire in sé alcuni dei vantaggi migliori dell’esistenza, e aveva vissuto quasi ventun anni in questo mondo con scarsissime occasioni di dispiacere o dispetto». In oltre quattrocento pagine in cui non si parla d’altro che di passeggiate, balli, abiti, lettere, condizioni meteorologiche, comportamenti inappropriati e visite di cortesia, un lettore disattento potrebbe annoiarsi da morire tra quei «piccoli dettagli», due parole che non a caso compaiono infinite volte nel romanzo, proprio perché per Austen la vita è fatta proprio di piccoli dettagli.
Emma stessa è annoiata da tutto questo, ed è il motivo per cui si adopra con trasporto nel vedere e creare intrighi laddove non ci sono. La vita così com’è è semplicemente troppo poco per Emma Woodhouse, il che la rende perennemente insoddisfatta. Colta questa chiave, non sarà certo impossibile per un lettore odierno immedesimarsi in lei: quanti di noi possono dirsi soddisfatti della propria vita? Quanti di noi ritengono di meritarsi più di quello che hanno? Se anche voi siete tra questi, come Emma non avrete difficoltà a trovare insopportabili personaggi come il signor Woodhouse – il padre di Emma –, lamentoso e ipocondriaco, e la signorina Bates, una zitella chiacchierona di scarsa intelligenza e poche pretese. Eppure, ecco come ci viene presentata da Austen la signorina Bates: «la sua giovinezza era trascorsa senza distinzione, e la sua mezza età era dedicata alla cura d’una madre le cui forza declinavano, e al tentativo di far bastare quanto più poteva una piccola rendita. Eppure essa era una donna felice… Essa amava ognuno; s’interessava alla felicità di ciascuno, scorgeva subito i meriti di ciascuno, si riteneva un essere fortunatissimo». Il paragone con il modo in cui viene presentata Emma all’inizio del romanzo è evidente. Qual è allora il segreto della signorina Bates – ovvero di Jane Austen? Il riconoscere che ogni vita è piena di avvenimenti, se solo ci mettiamo a osservare ciò che ci circonda e ci accade e a evidenziarne gli elementi di fascino.
Un simile messaggio, osserva il critico William Deresiewicz, è riscontrabile anche nell’Ulisse di James Joyce (1920), in cui il protagonista, Leopold Bloom, è un ometto semplice che vive una vita semplice, e una intera giornata nella sua Dublino è presentata dall’autore come un’odissea di dieci anni nei mari dominati da dèi capricciosi. Con una grande differenza: la vita di Leopold Bloom è interessante solo nel modo in cui Joyce la racconta, con infinite strutture simboliche e flussi di coscienza; la vita di Emma Woodhouse è interessante di per sé, e infatti in questo modo Austen la racconta. Certo, con l’ironia incredibile che la contraddistingue, ma così com’è.
Deresiewicz si spinge ancora un passo oltre, scrivendo: «Austen mi aveva insegnato cosa significa serietà morale nel senso profondo del termine: assumersi la responsabilità delle piccole cose, non di quelle grandi» (W. Deresiewicz, La vita secondo Jane Austen, p. 34). Come a dire che la vita è quella che ne facciamo, dal momento in cui apriamo gli occhi e ci stiracchiamo fino al momento in cui appoggiamo di nuovo la testa sul cuscino, e ogni step intermedio è una nostra responsabilità, sia nell’esecuzione che nel peso che gli vogliamo dare. È facile cedere all’attrattiva d’evasione dei romanzi d’avventura, dei film thriller, dei creator digitali dalle vite incredibili – e non è sbagliato farlo. Ma cosa succede quando posiamo il telefono, il libro o spegniamo la tv? Accade la nostra vita, e dovremmo guardarla con la stessa attenzione che ci abbiamo impiegato fino a un attimo prima. Questo, almeno, è quello che ci direbbe Jane Austen.