Perché ricordare? Perché raccontare? Perché investire del tempo per tramandare qualcosa che già c’è stato, che già ha vissuto quando si può dedicare interamente l’attenzione e la parola al nuovo, a ciò che ancora deve venire, dedicando – e così cedendo – a esso ogni facoltà mnemonica e cognitiva?
La nostra contemporaneità sembra profilarsi sempre più come una realtà in cui tutto corre in avanti ed esclusivamente verso ciò che è utile, in cui tutti sono sopraffatti dalla fretta e dalla smania di ciò che è novità e in cui da tempo si è valicato il sottile limes tra la prometea tensione verso la conoscenza e lo scadimento nel morboso e annoiato bisogno di ciò che ancora non si ha. Adottando quest’ottica appare dunque superfluo, se non addirittura inutile, conservare nella memoria e voler tramandare la storia passata, sia quella locale, minima, quotidiana, sia, talvolta, quella con la S maiuscola che si trova stampata e ristampata nei libri di scuola. In fin dei conti si tratta di vane conoscenze improduttive che, qualora dovessero rivelarsi utili, potranno essere recuperate online o su qualche vecchio tomo del liceo. Eppure, non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui tenere in vita ciò che in vita non c’era più era importante tanto quanto rimanere in vigile attesa di ciò che sarebbe venuto perché era chiaro e naturale che la condivisione di un sostrato comune e certo – ricordi, usi, tradizioni, esperienze – sarebbe divenuto solido punto di riferimento per accogliere in modo unito, condiviso e sicuramente più consapevole tutto l’ignoto che sarebbe giunto. Annotava lo scrittore langarolo Cesare Pavese nel suo personale taccuino:
«Ebbero molto più senso del passato i popoli ai primordi della storia che non i successivi. Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori – anche noi – quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia (genius is wisdom and youth)» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1962, p. 147).
Da queste poche righe datate 12 giugno 1939 risultano evidenti la fortuna e la ricchezza che l’autore riconosce a quelle comunità sociali che sono consapevoli del valore fertile del proprio passato e che per questo ne custodiscono gelosamente una riserva, affinché la fonte della loro realtà costitutiva non cessi mai di sgorgare linfa nuova e vitale. Solo conservando e custodendo la propria storia attraverso la memoria e la parola narrante è quindi possibile diventare creatori. Ma cosa significa diventare creatori? Significa approcciare la vita, in qualità di comunità sociale, come un moderno Giano bifronte, l’antica divinità nota per la sua capacità di puntare lo sguardo verso il futuro senza dimenticare di tenere presente il passato, ovverosia il punto di partenza. Solo in questo modo sarà possibile assistere, secondo Pavese, al vero progresso, ovverosia un progresso pieno e comunitario – e quindi interiore e fruttifero –, e non solo apparente, illusorio – e quindi meramente esteriore e sterile. «Tu intendi per progresso l’ingresso nell’assolutezza dei valori morali», sottolineava Pavese a se stesso nel 1939, «e tutto il resto la chiamitecnica (astuzia), altri s’accontentano appunto di quest’arricchimento tecnicodelle condizioni delbenessere e lo chiamano progresso» (ivi, p.148).
Risulta però chiaro che per poter assistere, se non all’ingresso, anche solo all’avvicinamento dell’uomo alla pavesiana assolutezza dei valori morali è necessario conoscere l’avvio e il dipanarsi del filo dell’umanità, in particolar modo della realtà comunitaria di riferimento e, conseguentemente, avere nella propria memoria una porzione di realtà che non è più l’hic et nunc, vale a dire il passato. Tuttavia, affinché la coscienza di tale passato permanga nella mente postera senza sbiadire a causa del tempo, è fondamentale che esso assuma una forma più o meno stabile che ne custodisca la componente più intima e pulsante: la storia deve diventare narrazione. Una narrazione, però, che non si riduca a pura e statica descrizione esente dal fluire del tempo, né tantomeno a mera cronaca asettica e devitalizzata. Perché una narrazione diventi storia e la Storia diventi narrazione è necessario quel quoziente di soggettività1 che è proprio del tramandamento generazionale e quindi del trasferimento di un bagaglio culturale – i già nominati ricordi, usi, tradizioni, esperienze, appunto –, il quale però necessita vitalmente di paziente rimembranza, desiderio di sostare per narrare e assoluta fiducia nella potenza dell’atto narrativo: «La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato», appunto.
NOTE
1. Cfr. S. Lanaro, Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi, Venezia, Marsilio Editore, 2004.
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Clara Bottega
Dopo un’infanzia trascorsa sugli alberi con il naso tra le pagine e una coppia di ciliegie a cavallo dell’orecchio, ha scelto di seguire il profumo della carta rincorrendone la scia fino alle sue origini. E così, fra Trieste e Padova, ha studiato, letto e scoperto, finendo per indossare due profumatissime corone d’alloro. Studi letterari e storico-artistici, prima, e Filologia moderna, poi: ecco i due percorsi di studio che l’hanno portata qui. Cosa la attende ancora non lo sa, tuttavia è certa che carta, inchiostro e parole saranno presenti.