Il Robot Selvaggio è un film d’animazione comparso da poco nelle sale italiane. Racconta la storia di un robot chiamato Rose, che si ritrova isolata in un ambiente naturale e selvaggio insieme a un gruppo di cuccioli animali. Il film esplora il tema dell’accudimento e della protezione attraverso il rapporto tra Rose e i piccoli protagonisti, presentandola come una figura empatica e “materna”, capace di prendersi cura di loro nonostante le sue origini meccaniche. Rose imparerà a adattarsi a un mondo selvaggio e privo delle regole tipiche della società umana che l’ha progettata, affrontando sfide che mettono in evidenza il contrasto tra la sua natura programmata e la sua crescente capacità di provare emozioni e rispondere con compassione.
L’opera si inserisce in un panorama culturale in continua evoluzione, dove il dibattito su genere, identità e rappresentazioni sociali è più vivo che mai. Ciò che mi colpisce del film è l’attribuzione di tratti tipicamente materni e femminili al robot protagonista, un aspetto che invita a riflettere sui messaggi impliciti trasmessi attraverso i media in merito a una pregressa significazione del ruolo di cura alla sola figura “femminile”. Il linguaggio corporeo di Rose, il tono di voce e le modalità di interazione sottolineano questa caratterizzazione empatica e dolce, facilmente associabile al concetto tradizionale di “madre”. Tuttavia, l’attribuzione di un genere così specifico a un robot, entità per sua natura priva di genere biologico, potrebbe sollevare alcune domande. Perché scegliere di “genderizzare” un personaggio che avrebbe potuto rappresentare una cura universale, slegata dagli stereotipi di genere? Da un punto di vista sociologico, tale scelta sembra riflettere una certa inerzia culturale, in cui il ruolo di cura viene associato prevalentemente a figure femminili. Questo approccio tradizionale potrebbe apparire rassicurante per un pubblico abituato a concepire tali dinamiche, ma rappresenta un’occasione mancata per esplorare modelli alternativi.
Come evidenziato dalla sociologa Nancy Chodorow nel suo libro The Reproduction of Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender (1978), il legame tra la figura materna e il ruolo di cura è profondamente radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, i media contemporanei hanno la possibilità e meriterebbero, a mio avviso, il delicato ruolo di sfidare questi modelli, proponendo visioni più inclusive e universali. Se il protagonista de Il Robot Selvaggio fosse stato neutrale, privo di una connotazione di genere, avrebbe potuto comunicare ai giovani spettatori un messaggio potente: l’amore, la protezione e la cura non appartengono a un genere specifico, ma sono valori condivisibili da tutti. Questo tipo di rappresentazione sarebbe stato particolarmente significativo in un’epoca in cui si cerca di superare le rigide divisioni di genere, promuovendo una visione più inclusiva e rispettosa delle identità. La scelta di attribuire al robot caratteristiche femminili, sebbene comprensibile dal punto di vista narrativo, può quindi essere letta come un riflesso delle aspettative culturali dominanti. Il nome stesso del protagonista de Il Robot Selvaggio, Rose, rafforza questa associazione con la femminilità, rendendo evidente una tendenza a perpetuare modelli tradizionali. D’altra parte, non si può ignorare che tali scelte possano essere state motivate dalla volontà di rendere il personaggio immediatamente comprensibile e familiare per il pubblico infantile, che associa naturalmente il ruolo di cura alla figura materna.
In conclusione, Il Robot Selvaggio è un film emozionante, realistico ai limiti della fantascienza. Visto tra le righe offre spunti interessanti per riflettere su come i media rappresentino i ruoli di genere e il loro impatto sul pubblico. Sarà interessante scrutare il panorama cinematografico futuro alla ricerca di opere che riescano ad osare di più, proponendo personaggi che rompano con le tradizioni e rappresentino la cura e la protezione come valori universali. Questo approccio non solo arricchirebbe le narrazioni, ma contribuirebbe anche a costruire una società più inclusiva, dove identità e ruoli non siano vincolati a schemi predefiniti.
NOTE
[Photo credit: fermo immagine tratto dal film]
Alessio Ruizzo
Soprannominato Benjamin Button; classe ’88, anche se il soprannome lascia supporre che ne dimostri molti di più: chi dice per saggezza, chi per il numero di capelli bianchi. Ha trascorso una parte della sua vita cercando il suo posto nel mondo, senza mai riuscirci del tutto. Originario della provincia di Caserta, viva a Nonantola, in provincia di Modena, dove può contare su di una splendida moglie, due figli, un impiego ospedaliero e un lungo mutuo da pagare. Appassionato di politica e società, ha intrapreso entrambe le strade: l’attivismo politico e gli studi sociologici, che sta per completare. La passione per politica e società si unisce a quella per la lettura e la scrittura, a cui deve una libreria stracolma e la prossima tappa verso una laurea magistrale in giornalismo.