La stanza accanto, l’ultimo film di Pedro Almodóvar, si è aggiudicato il Leone d’oro all’81a edizione della Mostra del cinema di Venezia. Basato sul romanzo di Sigrid Nunez What Are You Going Through, racconta di due amiche che si ritrovano dopo tanto tempo, Ingrid e Martha, interpretate da Julianne Moore e Tilda Swinton. Ingrid apprende per caso che la sua vecchia amica è affetta da un cancro terminale; va immediatamente a trovarla in ospedale, ed è quasi come se non si fossero mai lasciate. Le due iniziano a parlare – è soprattutto Martha ad aver bisogno di raccontare e raccontarsi. Parla del difficile (o inesistente) rapporto con sua figlia Michelle, dell’uomo con cui l’ha concepita e del suo lavoro di reporter di guerra.
Ma tutto quel parlare porta inevitabilmente al punto focale del film, nonché delle vite delle due amiche: Martha vuole una buona morte, “pulita e asciutta”, vuole combattere questa guerra a suo modo, prendere se stessa prima che sia la malattia a farlo. Non ha paura ma, così come nelle missioni di guerra, ha bisogno di un “seguito”: chiede a Ingrid di accompagnarla in questa ultima missione. E Ingrid accetta.
In modo pratico e lucido, Martha affitta una splendida casa accanto a un bosco, completa di ogni comfort e colorata come lo sono i suoi abiti – in un contrasto tipico del cineasta spagnolo: i colori sgargianti accompagnano le protagoniste e noi spettatori, rappresentando il contrasto tra vita e morte, ricordandoci che anche la morte può essere un’esperienza accesa e piena. Ingrid ha il compito di stare nella “stanza accanto”, facendo compagnia a Martha. Martha dormirà con la porta della sua stanza aperta, ma quando Ingrid la troverà chiusa, significherà che se ne sarà andata, alle sue condizioni.
Alla fine del film, Ingrid avrà qualche problema con un poliziotto religioso e bigotto, che la accusa (a ragione) di complicità in quel suicidio. Lo chiama così, “suicidio”, anche se Ingrid ci tiene a specificare che non lo è: è stata eutanasia, la bella morte.
Schopenhauer ci ha offerto il suo punto di vista sul suicidio. Secondo lui, la nostra più intima essenza (nonché quella del mondo) è una forza irrazionale, cieca, atemporale e aspaziale: la volontà di vivere. Essa ci consuma, portandoci a desiderare incessantemente ogni cosa – in particolar modo la nostra sopravvivenza – senza però farci sentire mai sazi. L’amore romantico è in realtà istinto sessuale atto alla riproduzione, ossia volontà di vivere; il desiderio di successo è volontà di vivere, che ci porta a prevalere egoisticamente sugli altri. Ma questa continua lotta per vivere, ci lascia sofferenti e infelici. Il suicidio sembrerebbe un sollievo – ma per Schopenhauer non lo è. Chi commette suicidio, secondo lui, è stato sconfitto dalla volontà di vivere: desiderava così tanto vivere (ma alle sue condizioni), da non poter più tollerare il dolore insito nell’esistenza. Ma, per l’appunto, il vinto è il suicida, non la volontà di vivere: essa prospera vittoriosa e continua a esistere, essendo una forza non individualizzabile.
«Alla volontà di vivere è certa la vita: la forma della vita è un presente senza fine; né importa il come nascano e periscano nel tempo gl’individui […] comparabili a sogni fugaci. Il suicidio ci apparisce già da questo un’azione vana e quindi stolta».1
Martha, quindi, è una donna che si abbandona alla cieca forza della volontà di vivere? Sì, in un certo senso. A ben vedere, il suo desiderio di morire alle sue condizioni, la porta (almeno in parte e in un momento iniziale) a sopraffare la sua amica Ingrid, che è terrorizzata dalla morte e non vorrebbe accettare il gravoso “favore” che Martha le chiede. Eppure Ingrid accetta – ed è qua che, a mio avviso, l’ingranaggio schopenhaueriano s’inceppa, portando a una sorta di conflagrazione. Il suicida è solo con la sua volontà di vivere, alla quale cede. Ma nella storia che Almodóvar ci racconta, c’è anche Ingrid, protagonista tanto quanto Martha. Ingrid compie un atto di estrema compassione – la stessa compassione amicale di cui parla Schopenhauer, una delle vie di liberazione dal dolore causato dalla volontà di vivere. Non senza difficoltà, accetta in toto la volontà dell’amica, accetta di traghettarla verso la morte, sentendo insieme a lei, con lei, la vita che ancora le scorre dentro.
E curiosamente, quando tutto finisce, Ingrid riceve la visita di Michelle, la figlia di Martha, incredibilmente identica a sua madre (Almodóvar utilizza la stessa Tilda Swinton, acconciata e abbigliata in modo diverso). In un’ultima lettera all’amica, Ingrid scrive che non avrebbe mai pensato di “ereditarla” sotto forma di sua figlia.
Forse Martha vive ancora – incorporata nella volontà di vivere che scuote ancora Ingrid ma anche sua figlia Michelle. Forse è proprio vero che tra suicidio ed eutanasia c’è davvero una “bella” differenza.
NOTE
1. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, edizione digitalizzata Liber Liber, 3a ediz. elettronica del 5 luglio 2017, pp. 489-490
[Photocredit Emma Frances Logan via Unsplash]