LIBRI
Quando ho letto “Harry Potter e la pietra filosofale” per la prima volta avevo otto anni. Un mondo nuovo, quello in cui ti proietta questo libro; un mondo per cui ti ritrovi a desiderare l’arrivo della lettera di convocazione ad Hogwarts, un mondo in cui riscopri amicizia e valori comuni a quelli che vivi anche nella normalità dei Babbani (i non maghi). Un libro che non è soltanto una sequenza di pagine scritte che si susseguono, ma un mezzo che ha la potenzialità di creare una realtà che tutti sognano, perché in fondo tutti – almeno una volta nella vita – abbiamo sognato di avere per le mani una bacchetta magica che cambiasse le cose. Un modo per tornare indietro nel tempo e rivedere le persone che ci mancano. Un modo per scegliere quale fosse la cosa giusta da fare. Un mondo che ci desse la possibilità di evadere senza sentirci in colpa.
Quando avevo dodici anni ho letto Tolkien, e in quel momento forse ho imparato cosa significasse leggere per davvero. E’ intramontabile un Autore che riesca a farti immergere in un universo e in un tempo inesistenti: immaginare la Terra di Mezzo, ritrovarsi nella Terza Era e voler partire con la Compagnia dell’Anello. Una trilogia tradotta in trentasette lingue, che ha ispirato film, videogiochi, libri. C’è chi è riuscito a trarne l’enorme capacità descrittive di questo Autore, c’è chi ha imparato cosa significhi immaginare, cosa possa produrre la nostra fantasia quando si mette all’opera. Quella fantasia che nei bambini è continuamente presente. Quella fantasia che negli adulti si sprigiona soltanto attraverso i sogni, perfino troppo poco in quelli ad occhi aperti.
Quando ho letto “Uomini che odiano le donne”, il primo romanzo della trilogia Millennium, ero già grande, invece. Essere alle prese con un romanzo di Larsson significa essere alle prese con le paure di personaggi di una statura enorme. Significa non riuscire a staccarsi dalle parole che stai leggendo, perché quelle parole – tanto dure quanto profonde – ti mettono alla prova man mano che le scorri. Argomenti di un’attualità fin troppo ricorrente, brividi e sentimenti: questo intreccio che non stanca mai, queste vicende che più si evolvono e più vorresti leggerne ancora.
Tre saghe completamente diverse, scritte da tre Autori che sono rimasti e rimarranno nella storia della Letteratura.
E’ difficile scrivere di una vicenda che non si conclude in un solo libro senza che si esauriscano le cose da dire: gli argomenti rischiano di ripetersi, di non rendere una visione lineare, di diventare tristemente altisonanti. Perché seguire con tanta costanza la pubblicazioni di romanzi successivi che raccontano dei medesimi personaggi?
Semplice, quella vicenda diventa parte del lettore: non gli basta leggere il primo capitolo, non gli basta nemmeno il secondo, perché è già portato ad immaginarne i successivi. La grandezza di chi scrive una saga risiede nel renderla attuale e trasversale: adatta ad ogni età, senza divisioni di pubblico per generi o ambiti. Il coinvolgimento dei valori appartenenti ad una società, e non si può far riferimento a dei valori relativi, che cambino per tempo e spazi. No. I valori rimangono vivi anche dopo anni, perché immortali. L’amicizia, l’amore, la fiducia, la determinazione, l’introspezione: dai grandi classici come “Lo Hobbit” alle nuove frontiere di “Hunger Games” gli Autori lasciano viaggiare chi è dall’altra parte del libro.
E il lettore non legge, ma si sente ospite della vicenda, si sente silenzioso spettatore di una realtà in cui bramerebbe essere.
Cecilia Coletta
FILM
Tutto ha inizio nei primi anni duemila. Un giovane ragazzino londinese è seduto sulla tavoletta del water di casa sua, quando suo papà sale le scale di corsa, con il telefono in mano e urla: “Daniel, Daniel ti hanno preso!”. Non è la scena di un film, ma è la dimostrazione che il cinema può cambiare realmente il destino di una vita intera. Il ragazzino seduto sulla tazza è un certo Daniel Radcliffe, destinato a diventare nel corso di pochi anni un’icona mondiale per milioni di spettatori. Se il suo nome non vi dice nulla, forse quello di Harry Potter vi potrà aiutare. Daniel nel 2000 è molto giovane, ma capisce al volo l’importanza di quel ruolo. Sa che accettarlo significa trasformarsi in una delle celebrità più osannate del Pianeta e allo stesso tempo che ciò comporterà una croce sulla sua futura carriera: da quel giorno in avanti lui per la gente non sarà più Daniel Radcliffe, ma “quello che ha fatto Harry Potter”. Lo stesso discorso vale per il genere delle saghe cinematografiche. Chiunque decida di trasporre sul grande schermo una serie di best seller letterari composti da molteplici episodi, deve infatti fare i conti con due aspetti: il primo è quello che da questa operazione si potranno ricavare ottimi profitti economici. Il secondo però è il rovescio della medaglia: più la saga letteraria sarà amata e conosciuta e più alto sarà il rischio di dover sacrificare la qualità cinematografica in nome della fedeltà alla trama originale della storia. In altre parole: le pellicole tratte da grandi saghe letterarie non sono quasi mai dei grandi film proprio perché non riescono a superare la forza della pagina scritta e dell’immaginario che il lettore si era creato quando l’aveva letta. Non succede subito, ma prima della conclusione della storia la rottura è inevitabile. Prendiamo due classici come “Harry Potter e la pietra filosofale” e “La compagnia dell’anello”. Il primo è stato uno dei film più attesi del Ventunesimo secolo, riuscito nella sfida di mantenersi fedele al libro pur trovando dei piacevoli esiti visivi e cinematografici, apprezzati da gran parte della critica mondiale. Il debutto sul grande schermo de “Il signore degli anelli” fu invece ancora più ambizioso. Anche qui il regista Peter Jackson si mantenne fedele alla pagina scritta da Tolkien, dando forma alle sue splendide suggestioni letterarie grazie al sapiente uso degli effetti visivi e della computer grafica, innovativa per l’epoca. Lodi e riconoscimenti anche in questo caso. Ma se all’inizio il cinema sembrava aver vinto la scommessa, con il passare degli anni i film ispirati al mondo dei maghetti e della Terra di mezzo hanno perso sempre più vigore, finendo per lasciare scontenti certe volte i lettori dei libri e molte altre i critici cinematografici che si aspettavano di trovare ancora tracce di cinema in quella che sembrava essere diventata solo una grande operazione commerciale. Alla fine della favola “Il ritorno del re” sarà il secondo film nella storia del cinema a guadagnare più di un miliardo di dollari in tutto il mondo. Prima di lui solo un capolavoro come “Titanic” c’era riuscito. E se l’epilogo del Signore degli anelli ha avuto cifre record, “Harry Potter e i doni della morte 2” risponde aggiudicandosi il titolo di terzo miglior incasso di sempre nella storia del cinema, subito dietro a “Titanic” e “Avatar” di J. Cameron. Una macchina da soldi spaventosa, ma allo stesso tempo un disastro sul piano della messa in scena artistica. Per quanto siano stati apprezzati da molti, gli ultimi capitoli di queste due saghe non hanno saputo ripetere il successo del loro primo episodio e si sono perse tra marketing e megalomania.
Alvise Wollner