Il 25 aprile, giorno simbolo della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, non rappresenta solo la vittoria militare dell’Italia partigiana sul regime oppressivo, ma anche l’inizio della rinascita del nostro Paese all’insegna della democrazia, della riaffermazione dei diritti e della libertà, che il fascismo aveva negato. Una rinascita che non sarebbe stata possibile senza il sacrificio di donne e uomini, che durante la Resistenza hanno lottato per abbattere il regime liberticida e restituire al popolo italiano la possibilità di autodeterminarsi.
Il risultato di questa lotta è la nostra Costituzione, che consacra, con valore di legge, gli ideali e i principi per i quali hanno coraggiosamente combattuto i partigiani, sacrificando se stessi.
Tra gli eroi di questa rinascita, meritano di essere menzionati gli IMI, gli Internati Militari Italiani, circa 600.000 soldati italiani che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 sottoscritto dal generale Badoglio con gli angloamericani, furono rastrellati e catturati dai nazisti nell’Italia occupata dai tedeschi e sui fronti di guerra dove fino a poco prima avevano combattuto a fianco dei tedeschi come alleati. Posti davanti alla scelta di passare dalla parte tedesca e combattere nella Wehrmacht, quei soldati rifiutarono in massa e anche dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana continuarono a opporre un deciso “No” alla collaborazione con il regime nazifascista. Per questo motivo furono deportati nei lager nazisti.
Quel rifiuto fu l’inizio della loro eroica battaglia morale e del loro dramma: divennero vittime di vessazioni e violenze non dissimili a quelle subite dai deportati ebrei nei campi gestiti dalle SS. Di quelle storie, consumate nell’inferno dei lager, rimangono tracce indelebili in diari scritti in gran segreto su fogli di fortuna, testimonianze di un’umanità che seppe resistere all’orrore senza cedere materialmente e spiritualmente e che, attraverso la scrittura, tentò di lasciare memoria di sé in un mondo che voleva cancellarla.
Tali sono le narrazioni raccolte da M. Avagliano e M. Palmieri nel volume I militari italiani nei lager nazisti e il Diario clandestino dello scrittore Giovannino Guareschi, uno dei 600.000 internati, che, in pagine intense, raccontano l’odissea degli IMI e la loro forza d’animo.
«Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato. Il mondo ci dimenticò.» (G. Guareschi, Diario clandestino, Rizzoli, Milano, 1982 pp. VIII-IX)
Fu Hitler, col decreto del 20 settembre 1943, ad adottare la definizione di IMI, per privare i soldati italiani, internati nei lager nazisti, della protezione della Convenzione di Ginevra, del diritto di ricevere dalla Croce Rossa Internazionale gli aiuti e le minime tutele umanitarie riservate ai prigionieri di guerra e consentire al regime nazista di sottoporli a «un vero e proprio processo di spersonalizzazione» (M. Avagliano e M. Palmieri I militari italiani nei lager nazisti, Il Mulino, Bologna, 2020 p.97) e di utilizzarli come «forza lavoro di fatto schiavistica nell’economia di guerra del Reich» (ivi p.72)
Nel lager Guareschi era il numero 6865333: anche gli IMI non erano più persone, ma mere unità, strumenti da impiegare e sfruttare.
Dovevano lavorare fino a 15 ore al giorno «tra la pioggia e il freddo, lungo le ferrovie, tra le macerie delle città distrutte, o in fabbriche agli altri forni, al tornio, al trasporto materiale pesante, o nelle miniere, a centinaia di metri sotto terra, dove si respirava più polvere che aria» (ivi p. 200), sostentati dalla sola “sbobba”, una razione quotidiana di cibo insufficiente, un liquido nauseabondo contenente carote, rape e patate «lessate così come vengono dalla Madre Terra e cioè con fango, terriccio, sabbia, pietruzze, parti legnose, putride e piene di vermi» (ivi p.239)
Bastava un piccolo ritardo agli interminabili appelli mattutini e serali, una reazione inadeguata, per essere sottoposti a sevizie, prove fisiche e punizioni esemplari o per essere sommariamente giustiziati, se prima non morivano di tifo o tubercolosi. Oltre 51.000 IMI perirono nei campi di prigionia. In tanti, pur minati nel corpo e nell’anima, seppero resistere alla fame, al freddo, ai soprusi, alle umiliazioni. Anche Guareschi riuscì a non morire e dopo la liberazione, avvenuta nella primavera del 1945, compose questo significativo acrostico intitolato IMI.
Ingannato, Malmenato, Impacchettato
Internato, Malnutrito, Infamato…
Inutilmente Mussolini Insistette…
Inverno Malattie Infierirono
Invano Mangiare Implorai
Implorai Medicinali, Indumenti…
Invocai Morte Immediata
Impazzivo Ma Insistetti
(G. Guareschi, Radio-Baracca numero 90, 31 maggio 1945)
La resistenza senza armi degli IMI è una pagina poco nota della storia italiana, che merita pieno riconoscimento nella memoria collettiva. È una storia di coraggio, determinazione e lotta che va ricordata affinché diventi monito e impegno per il presente a non cedere mai all’indifferenza, a difendere ovunque dignità e diritti umani, a contrastare a ogni forma di violenza e sopruso, a lottare per un mondo più giusto.
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