L’Italia e il calcio: uno sport che coinvolge milioni di persone. Giocatori, aspiranti tali, ragazzi di ogni età, appassionati, tifosi.
C’è chi del calcio fa la propria vita, c’è chi sul calcio fonda il proprio lavoro. Ci crede, lo vive, lo gioca, lo rende parte integrante di sé e della propria quotidianità, investendo personalità ed energie con carattere e motivazioni forti.
Oggi, anche in vista dei Mondiali di Calcio che inizieranno a breve, abbiamo il piacere di presentarvi l’intervista ad Ernesto Bronzetti, agente FIFA dal ’94 che rappresenta uno dei nomi più conosciuti nel panorama calcistico e una delle figure più influenti del mondo del calcio.
Ernesto Bronzetti è semplice, come lo era prima di diventare un grande procuratore; ciò che lo contraddistingue più di tutto è la passione e l’amore per ciò che fa.
Ernesto Bronzetti, Lei è tra gli agenti FIFA più famosi al mondo: come si è evoluta la Sua carriera?
Sono sempre stato innamorato del calcio, da quando ero piccolo. E’ lo sport che ha rappresentato la grande passione della mia vita; andavo a vedere ogni partita, anche da solo. Era un hobby inizialmente; a diciotto anni ero impiegato alle poste e al tempo stesso ero arbitro a Venezia.
Ho iniziato a segnalare i ragazzi giovani talentuosi che vedevo giocare ad un amico che all’epoca era dirigente sportivo del Perugia; pian piano è iniziata la mia carriera. Sono stato per vent’anni dirigente sportivo per Società del Sud come il Palermo e il Foggia, poi nel ’94 sono diventato Agente FIFA. Ho gestito le operazioni con il Barcellona, con l’Atletico Madrid; ho seguito trattative come quella per portare Vieri all’Atletico Madrid o quella per Diego Simeone. Ho fatto molta esperienza, finché sono diventato Consulente per il Milan; inoltre ho sempre avuto un cuore rossonero, è stata una grande soddisfazione.
Attualmente lavoro con il Real Madrid e sono il procuratore di Carlo Ancelotti.
Una vita di enormi soddisfazioni; ma qual è stato tra tutti il risultato che ritiene più significativo?
Il mio grande risultato è stato quello di aver trasferito ben sette palloni d’oro: Hristo Stoickov dal Barcellona al Parma; Luis Figo, dal Real Madrid all’Inter; e poi ho portato al Milan Kakà, Rivaldo, Ronaldinho e Beckham. Sicuramente tra le trattative più difficili c’è stata quella per Ronaldinho a cui ho lavorato un anno e mezzo, proprio perché ero innamorato del suo livello calcistico e, soprattutto, quella in cui ho portato Carlo Ancelotti ad essere l’allenatore del Real Madrid.
È stato difficilissimo strapparlo al Paris Saint-Germain: sono rimasto per un mese e dieci giorni a Parigi per concludere questa trattativa. Era il terzo tentativo nel corso degli anni dopo il Chelsea e il Paris Saint-Germain: alla fine ce l’ho fatta e vedere che quest’anno il Real Madrid ha vinto la Champions League è stato molto significativo per me.
Che considerazione ha del calcio italiano in questo momento? L’Italia ai Mondiali?
Pessima, purtroppo: abbiamo assistito allo stato attuale della squadra italiana nell’ultima amichevole contro il Lussemburgo: non abbiamo una squadra pronta per i Mondiali di Calcio. Non abbiamo i giocatori capaci di cambiare le partite. La Germania li ha, l’Argentina li ha, il Portogallo li ha; noi no. Non abbiamo qualcosa che faccia la differenza. Ovviamente spero di essere smentito; di solito ai Mondiali siamo anche capaci di tirare fuori una grinta che prima non sembra appartenerci.
Come è riuscito ad essere il migliore e non uno tra tanti?
Le mie origini me l’hanno permesso. Sono figlio di operai e so cosa significa il rispetto per le persone. Mi piace farmi voler bene, mi piace fondare i rapporti che ho in maniera autentica e non per pura convenienza. Sono amico di Galliani da anni, sono amico di Ancelotti, sono amico di Pérez, il Presidente del Real Madrid. Lo sarei anche se un domani non ricoprissero più i loro ruoli. Nel mondo del calcio la parola “amicizia” si spende facilmente; si è “amici” per convenienza, soltanto per affari. Io credo invece che alla base ci sia un rapporto di fiducia, considerando ovviamente anche i reciproci interessi lavorativi: credo nell’amicizia, credo nel rispetto per le persone e nei valori che ho da sempre.
Cosa consiglierebbe ad un giovane che voglia intraprendere un percorso analogo al suo?
Gli direi che è possibile, come ci sono riuscito io. A Roma si dice che “Nessuno nasce imparato”; io ci credo fermamente. Il lavoro, l’esperienza, le opportunità formano il carattere e le capacità. Bisogna sapersi sdoppiare anche caratterialmente: hai a che fare con persone di tutti i generi. Più o meno semplici e affabili; devi saper farti volere bene da tutti e il resto viene da sé.
Il calcio consiste fondamentalmente in due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla correttamente. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare. Se non la puoi controllare, tantomeno la puoi passare.
Una citazione di Johan Cruijff rappresenta al meglio ciò che accomuna il calcio ed Ernesto Bronzetti: passione e grandi capacità.
È un uomo che ha dato tutto in ciò che ama, per cui l’impegno è sempre stato una regola per ottenere ciò che vedeva nell’orizzonte dei suoi obiettivi. Semplice, tenace, bravo nel saper sfruttare l’occasione giusta.
Ci lascia una visione del calcio più positiva di quella a cui siamo generalmente abituati: ci regala una visione di sogno del tifoso che ama la sua squadra, ci regala la visione di un uomo che fa di tutto per realizzarsi in ciò che gli piace.
E, soprattutto, ci riesce, lasciandoci un messaggio molto importante, che è quello di inseguire i sogni, di viverli e di non smettere mai di giocare la partita della vita.
Ma vi è filosofia anche nel calcio? Certo, a primo impatto le due parole insieme costituiscono un ossimoro paradossale, eppure il rapporto che si instaura tra questi due termini è basato su tematiche prettamente filosofiche come il rapporto tra il singolo e il gruppo, il legame tra la creatività e le regole, la dialettica tra libertà e responsabilità.
Come spiega il Professore di Filosofia Morale Elio Matassi, autore del libro La filosofia del calcio, il gioco di squadra può essere spiegato attraverso la formula hegeliana dello Stato come das Erste, ossia primo principio, tentando di concettualizzare il primato della totalità-squadra sulle parti-giocatori.
I giocatori vengono prima della squadra di calcio, dal momento che senza i giocatori una squadra non potrebbe neppure esistere, ma se i giocatori (le parti) nel loro gioco non realizzano se stessi all’interno della squadra (la totalità), questa non potrebbe mai essere vincente ed esprimere il suo primato in un gioco irresistibile e avvincente.
Allo stesso modo mutuando da Kant la formula “La vera creatività è quella che si fonda sulle regole”, l’individualità del fantasista della squadra può cercare soddisfacente interpretazione nel rapporto tra genialità e norma.
Il calcio, dunque, può essere considerato una riflessione sociologica del mondo, ritrovando le origini etico-eroiche di questo sport.
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