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NOTA SU ORAZIO, ODI, I, 11 o dell’imprevedibile germe della disobbedienza.

Tu[1] ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi

finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios

temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.

Seu pluri hiemes sei tribuit Iuppiter ultimam,

 

quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare

Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi

spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida

aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

 

Ci sono poeti che sanno parlare la lingua arcana dell’anima, versi che si incontrano inconsapevolmente, in un uggioso giorno di liceo, si traducono malamente e, altrettanto inconsapevolmente, si finisce per mandare a memoria. Ci sono parole che si masticano a lungo, che si incardinano tra la struttura complessa di significanti che è la nostra biografia, aperta sempre ad un potenzialmente infinito numero di significati. È ciò che accadde a me, quando lessi per la prima volta i versi di Quinto Orazio Flacco, quando ancora non sapevo che avrei battuto i sentieri della filosofia, che avrei voluto prendermi cura della Verità.

Tu ne quaesieris, scire nefas.

Subito un comando, un monito tradito. Tu non chiederai, non t’è dato sapere: eppure mi interrogo e vado chiedendo, guardo il volo dei miei pensieri, scruto tra le viscere di sistemi e storie. Quem mihi, quem tibi finem di dederint. Quale fine a te, quale a me, gli dei abbiano riservato. Eppure cerco l’Originario, quel Primo che dia senso all’Ultimo. Da sempre l’uomo vive la tensione all’ascolto del Logos, ha domande e vuole risposte, ha dolori e cerca rimedi.

Ut melius, quidquid erit, pati.

Quanto è meglio, qualsiasi cosa accadrà, sopportarla.

Patire, sopportare, tollerare? Se dovessi solo reggere il mondo che accade, non sarei fatto di carne e sangue, spirito e appetiti, occhi e orecchie da tendere verso il vero: sarei solo braccia e gambe e muscoli. Sono solo streben? Sono solo le ali tarpate di un volo proibito? Sono potenzialmente ciò che non posso essere attualmente, concretamente, veramente? Aporia angosciante: mi manca il respiro, ho paura della nientità.

Sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces.

A far che devo risolvermi? Perché sollecitarmi se non posso, non devo domandare?

Sapias. Saggia! La necessità della proibizione chiama con sé la necessità della disobbedienza. Assaggio ciò che mi viene negato, levando nervoso la testa, mordendo la vita col cuore e la mente. Dolore di mascelle troppo a lungo serrate. Mi sono destato dalla sonnolente incoscienza. Sacrificare la tranquillità in virtù della vera Gioia. Incertezze da governare. Passare al setaccio il molteplice.

Spem longam reseces: quale speranza debbo recidere? Quella di essere diverso da come sono? Di non essere stato pensato, in fondo, per ricercare, domandare, disobbedire, addentare? Ho in me il desiderio del vero e, ad un tempo, la vigliacca speranza di non aver occhi per guadagnarne il senso? Sono una nervosa, selvaggia contraddizione?

Dum loquimur fugerit invida aetas.

Perché fugge il tempo, dinanzi alle nostre parole? Perché i suoi legacci non tengono fermo il Logos.

Carpe diem.

È la morte del tempo che non vede. Avrei potuto ciecamente patire e invece volli squartare le trame di ciò che accadeva dinanzi ai miei occhi. E ancora ricerco ciò che riluce, custodito dietro stringhe di fenomeni e accidenti. Ciò che riluce, Saphés, Sophìa.

Emanuele Lepore

Note

[1]Tu non chiederai, non è lecito saperlo, quale fine a me, quale a te/ gli dei abbiano riservato, Leuconoe, e non tentare i numeri babilonesi. Quanto è meglio, qualsiasi cosa accadrà, sopportarla!/ E che Giove ci abbia destinato molti inverni, e che l’ultimo sia questo/ che ora fiacca il mare /Tirreno con le fiere scogliere, sii saggia, mesci i vini e tronca dalla breve vita la lunga speranza. Mentre parliamo, è già fuggito il cieco / tempo: carpisci il momento, confidando nel domani meno che puoi.

La traduzione proposta è passibile di numerose correzioni: talvolta si è preferito allontanarsi dalle versioni più diffuse per facilitare la comprensione di un senso che, altrimenti, sarebbe rimasto nascosto. Non v’è altra pretesa: non di assoluta correttezza, non di esaustività concettuale.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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