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“Per la forza di una parola”

Un giorno di agosto, per nulla soleggiato e nemmeno caldo, sono andata sul monte Grappa e ci ho trovato una grande scultura.

La sono andata a cercare perché avevo visto un cartello che indicava un monumento alla resistenza partigiana; così, svoltando l’ennesimo tornante, l’avevo vista in lontananza. Ho parcheggiato la macchina e le sono andata incontro, l’ho studiata passo dopo passo cercando di capire che cosa rappresentasse; prima era piccolina davanti al suo sfondo erboso, la potevo tenere tra due dita, ma dopo pochi minuti mi sovrastava. Era nera e informe, come se un’improvvisa vampata di intenso calore avesse squagliato la matericità del bronzo. La prima cosa che sono riuscita a distinguere mentre mi avvicinavo erano due gambe e due braccia, che avevano delle mani contratte e protese verso il cielo.

Le ho girato attorno come un avvoltoio attento: la seconda cosa che ho visto è stata un ventre svuotato e la terza un volto, il cui profilo era rivolto verso l’alto e ben delineato contro il cielo, ma non aveva lineamenti definiti ed il suo occhio non era altro che un buco: il vuoto lo faceva sembrare spalancato. Ho notato poi che le mani erano strette da lembi di corda nera, come se una volta fossero legate tra di loro e si fossero liberate. Insomma, ho capito perché i partigiani.

Ma poi ho continuato a girare ed ho incrociato due lastre di pietra con due iscrizioni. La prima, incastonata nella roccia vicino ad una oscura apertura nella montagna, diceva così: “A ricordo dei sette partigiani bruciati vivi in questa galleria da lanciafiamme degli oppressori nazifascisti” e poi una data, quasi nascosta, 22-09-1944. Il mio corpo è stato immediatamente attraversato da quel brivido spontaneo, quello di una mente che prova ad immaginare che cosa si può provare a morire arsi vivi, sentirsi la pelle che si squaglia e il cervello saturo di dolore che ti sembra sul punto di esplodere. Una morte atroce che non si merita nessuno.

Poi ho letto anche l’altra lastra, di marmo questa, dai contorni precisi rettangolari ed accompagnata da fiori rossi e bianchi, rose circondate da un nastro tricolore.

“E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti
Libertà”

Dopo anni di esperienze e di continue riflessioni su di esse sono giunta alla conclusione che sono una persona sensibile; in certi casi, enormemente sensibile. Il tema della guerra è uno di quelli che incontra invariabilmente la mia pena ogni volta che lo sento, che sia declinato in un film o in un libro di storia. Non so se credo veramente nel Paradiso ma credo nel fatto che, in qualche modo, se rivolgi un pensiero ai morti loro ti sentono; perciò, ogni monumento ai caduti delle guerre mi provoca un infinito senso di pietà e di commozione. Forse perché mi saltano subito in mente quei versi di De André, quelli che raccontano del soldato Piero mentre se ne va al fronte senza capire perché ci sta andando.

Ci sono anche altre storie che mi piacciono –cioè, che mi fanno male ma che adoro. Di una ho già accennato qualcosa, quella di Enjolras e dei suoi compagni ne Les Misérables che programmano un moto rivoluzionario per liberare la Francia dalla monarchia di un re non meno spietato –o, piuttosto, noncurante di Luigi XVI¹; un’altra storia potrebbe essere quella di Aléxandros Panagulis, che in tempi più recenti e nella realtà degli eventi ha organizzato un attentato contro la dittatura dei colonnelli che dal 1967 ha stretto la Grecia in un regime privo anche del ricordo democrazia, e quindi anche di una totale mancanza del coraggio di lottare per essa –tranne lui².

Oppure la storia di quest’uomo. Non c’era una firma, né un indizio che facesse capire che quelle parole fossero state effettivamente proferite da qualcuno di quei sette partigiani, ma nella mia testa era chiaro che fossero state proferite da lui, dalla statua. Lui era lì, aveva effettivamente il corpo liquefatto, e la causa di ciò evidentemente era veramente il fuoco; l’occhio era sempre lì, spalancato, azzurro in mezzo alla faccia annerita perché dietro c’era il cielo; le mani erano protese verso l’alto, si era liberato e le tendeva verso la luce benefica del sole che, per uno straordinario caso fortuito, a quell’ora del giorno e in quella stagione sembrava proprio lì, a portata di mano. Fissava la luce e non gridava, perché le labbra, come se mormorassero un’ultima parola, erano appena schiuse su quel volto senza lineamenti, tanto che lui potrebbe essere chiunque. Chiunque abbia trovato la volontà di combattere per la forza di una sola parola.

Libertà. Oggi forse ne abusiamo tanto che ne abbiamo perso il significato –soprattutto noi del fortunello mondo occidentale, anche se pure noi a ben vedere ne siamo privati, a volte senza saperlo, perché siamo uomini, e tutti noi possiamo essere a vari livelli gli schiavisti di qualcun altro.

Morire per la forza di una parola a volte mi appare incredibilmente bello, poetico, a volte persino giusto. La mia vita mi sembra minuscola in confronto a queste storie e continuo a chiedermi se anche io farei lo stesso –intendo, lottare strenuamente per qualcosa, non necessariamente morire, no, quella è la peggiore delle ipotesi ma nel caso la si abbraccia perché un uomo può morire ma l’ideale no. Mi chiedo se sono un’idealista di fatto e non solo d’intenzioni. Mi sento minuscola perché mi pare che quelle storie siano tanto grandi da leggere e a vedersi, ma a viverle io non ce la farei, io sono troppo fragile. Senza dubbio l’ho deciso io di essere fragile perché è una scusa migliore che ammettere di essere troppo pigra per combattere per i miei ideali –troppo pigra o troppo paurosa, o forse, aiuto!, forse non ci credo poi così tanto. Non so uscire da questa impasse, non so se sono davvero così (pigra, paurosa o bugiarda) o se ancora non ho trovato quella parola che fa scattare il click –perché tutto sommato ogni persona probabilmente ha una propria parola. Io non sono Malala, je ne suis pas Charlie, e probabilmente non saprei urlare “Vi faccio vedere come muore un italiano”; però mi auguro di mantenere sempre la stessa dignità, ogni giorno della mia esistenza, e mi auguro di avere il loro coraggio se un giorno la mia vita dovesse così oscuramente capovolgersi. Intanto penso alla statua: lui sapeva tutto, e non aveva dubbio alcuno. E’ morto, ma si è salvato dal tribunale di se stesso.

Giorgia Favero

 

Note:

Nella foto: Augusto Murer, Monumento al partigiano sul Monte Grappa, 1974 [Immagine tratta da Google]

Da una ricerca successiva, ho scoperto che l’incisione sulla lastra di marmo è un frammento di una poesia di Paul Éluard, Libertà, scritta nel 1942 quando anche lui partecipò alla resistenza nel suo paese, la Francia.

  1. Victor Hugo, Les Misérables, 1862.
  2. La sua storia l’ho conosciuta tramite il romanzo Un uomo di Oriana Fallaci (1979). In Italia sono stati pubblicati anche due suoi libri di poesie, Vi scrivo da un carcere in Grecia (1974) e Altri seguiranno (ristampa 1990).

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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