Il 17 ottobre mi hanno invitata ad una manifestazione e nonostante solitamente io sia tragicamente incline a farmi vincere dalla pigrizia e dire di no, questa volta ci sono andata. Si trattava di un evento chiamato “La notte dei senza dimora”, aveva luogo in piazza dei Signori a Treviso e si articolava in un pomeriggio di attività varie di sensibilizzazione sul tema, con cena spartana tutti insieme alle sette e poi corteo a piedi fino ad un nuovo dormitorio inaugurato quella sera stessa per ospitare profughi e soprattutto senzatetto.
Alla tv sento spesso nominarli “clochard”, secondo la recente e ben nota tendenza a trovare un nome più carino e meno diretto per definire qualcosa di poco bello, come se si dovesse tenerlo nascosto. Senti dire “clochard” e non ci pensi; senti dire “senzatetto” o “senza fissa dimora” e invece la parola ti entra dentro.
Sono stata attratta in particolare dall’idea di ascoltare delle storie –in particolare delle storie per me del tutto nuove. Pensavo che avrei saputo tenere a bada la mia ipersensibilità, e invece diverse lacrime sono scese silenziosamente copiose.
“Voglio solo ricordare Paolo, quarantaquattro anni, abbiamo diviso la stessa camera. Si è buttato nel fiume”.
Lacrime.
In piazza quella sera di senzatetto non ce n’erano e devo ammettere che questa cosa non la capivo. Che cosa li ha trattenuti? Vergogna? Sfiducia? E’ vero, tra una settimana questa notte sarà scivolata via su Treviso e sul mondo e ci sarà qualche altro problema al centro dell’attenzione, e anche lui ci occuperà tutto il cuore e l’animo per il lasso di tempo che gli verrà assegnato. Non credo che il mio sia cinismo, è solo la realtà dei fatti: non ti possono rimanere dentro tutti i problemi del mondo, anche perché i problemi prosciugano la nostra forza vitale e quando sono troppi non possiamo andare avanti.
Oltretutto, io non li posso capire. Nessuno li può capire, come nessuno può davvero capire qualcosa se non ci ha a che fare in prima persona –cioè non puoi conoscere il sapore di quello schifo se non ce l’hai nella tua propria bocca.
“I cerotti, brava!”, mi ha detto la volontaria sbirciando dentro la mia busta di articoli per l’igiene personale. La mia amica mi aveva detto che li avrebbero raccolti e quindi mi ero preparata; in quel momento non ho saputo evitare un sorriso compiaciuto, il che è ridicolo se pensiamo a quanto tempo avevo impiegato al supermercato a scegliere il bagnoschiuma all’olio di Argan piuttosto che quello muschio e frutti di bosco. Nel frattempo la ragazza ha aggiunto il contenuto della mia busta ad uno scatolone posato a terra e questa volta sono stata io a sbirciare: non c’era traccia di cerotti. Inizialmente ho pensato di essere stata quella che aveva trascurato la funzionalità un po’ meno degli altri, ma poi ho realizzato che in realtà nessuno di noi aveva capito del tutto che cosa era necessario portare, né lo sappiamo ora.
So che è difficile da credere, ma a finire per strada basta pochissimo: un divorzio, un’impresa che fallisce. Un momento sei quello che esce dal negozio con i pacchetti precisi e ordinati e quello dopo sei l’ombra che sta davanti alla vetrina e che si ricorda ancora troppo bene quella sensazione leggera e noncurante. All’improvviso sei quello che riceve lo shampoo per i capelli da uno scatolone, e dentro ce l’ha messo il tizio chissà chi da chissà dove che evidentemente poteva farne a meno. Adesso guardo quelle figure ed ho in testa una domanda nuova: a che cosa pensano mentre guardano noi? Noi, quelli ancora salvi, quelli ancora allegramente inconsapevolmente fortunati. Su di noi hanno il vantaggio di conoscere entrambe le storie, però noi, forse, abbiamo troppa paura di ascoltarle.
Dopo la cena è partito il corteo: nulla a che fare con gli scioperi dei sindacati, solo un piccolo capannello di persone diverse, con sentimenti compresi nel cuore e delle candeline in mano. James Matthew Barry in Peter Pan scrive che i lumini sono gli occhi che una mamma lascia nella camera dei figli per vegliare su di loro; lasciare quelle piccole candele nel buio quasi fitto della città, osservarle passandoci vicino, era come se invece stessimo promettendo loro di essere noi a vegliare sul loro ricordo, su quello che erano. Ombre nella città, non visti, oppure scansati. Lo faccio anche io: scanso sistematicamente ogni singolo mendicante –perché del resto com’è che si sceglie? Come ci si fida?
Adesso so che c’è una soluzione plausibile: fidarsi delle associazioni che lavorano con loro. Perché tutte quelle persone che avevo intorno a me… loro ci tenevano davvero. Ci tengono sempre, non solo quella sera –io, da parte mia, spero di tenerci un pochino di più ogniqualvolta mi capita di pensarci.
Nell’ultimo anno in Italia sono morti 196 senzatetto: per assideramento, mancanza di cure mediche, suicidio (cioè disperazione). Tutti noi portavamo in mano le candeline ma anche dei pezzi di cartone strappati da scatoloni di vario genere: sopra ciascuno ci avevamo scritto un pensiero per ognuna di quelle 196 persone ed oltre a ciò il nome, l’età, la provenienza –un piccolo ritratto fatto di parole. C’erano anche molte donne –è strano, quando pensiamo ai senzatetto non ci vengono spesso in mente delle donne; e poi giovani insieme ai vecchi, venticinquenni con cinquantaduenni, italiani con romeni e tunisini. La differenza tra me e loro era semplicemente che la donna bendata aveva dato troppo a me e poco a loro. L’unica differenza, solo un mero dato del caso.
Almeno finora.
[immagine tratta da unsplash]