Ci occupiamo oggi di un romanzo poco noto, pressoché estraneo al percorso della letteratura italiana del secondo Novecento. Un romanzo dalla storia editoriale anomala: pubblicato nel 1947, poi nel 1964, alla fine degli anni Settanta e infine nel 2002 (questa edizione è tuttora in commercio), ma sempre da piccoli editori locali. Il regalo del Mandrogno è opera di due fratelli, Pierluigi (1884-1962) e Ettore (1895-1979) Erizzo: due avvocati piemontesi (ma di origine nobile veneziana) che lo scrissero per passatempo mentre la guerra ostacolava la loro attività professionale.
Un’opera minore, certo, ma che nei decenni si è costruita un pubblico partecipe quanto appartato. E un romanzo di ampie dimensioni (oltre 800 pagine nell’ultima edizione), ben giustificate dalla trama: la storia di una famiglia della provincia alessandrina da Napoleone ai primi del Novecento.
La vicenda inizia con la morte, intorno al 1930, del vecchissimo Policleto Montecucco: un personaggio di rara antipatia, egoista e pieno di astio verso tutti i componenti della sua famiglia. Col suo testamento non si smentisce: sceglie infatti di lasciare ai figli solo la legittima, dividendo tutto il resto del patrimonio fra quattro persone apparentemente prive di rapporti tra loro: “è, più che lecito, giusto che il Testatore del suo peculio disponga a favore di quanti conservino in sé, sia pure per vie ascose, la miglior linfa della imporrita pianta”. Due nipoti di Montecucco, gli avvocati Polo e Alvise (evidenti alter ego degli autori, che raccontano la vicenda in una curiosa prima persona plurale) indagano su questi personaggi ricostruendo la storia di un ramo nascosto – eppure forte e vitale – di una famiglia ormai decaduta.
Tutto comincia il giorno della battaglia di Marengo (14 giugno 1800), quando nella tenuta dei Montecucco arriva un ufficiale napoleonico ferito, Isidoro Chénousset: un uomo forte, appassionato, dai rozzi lineamenti e dai capelli rossi. Lo accompagna il “mandrogno” del titolo: è questo un termine popolare locale che indica gli abitanti delle campagne di Alessandria. I mandrogni tornano spesso nel romanzo: carrettieri dalla vita zingaresca e un po’ ai margini della legge, impegnati in traffici non sempre chiari ma mossi da un forte senso dell’onore.
Di Chénousset si innamora perdutamente Rosina, moglie spenta e intristita di Giovacchino Montecucco: da questo breve amore nasce un figlio, Napoleone, destinato a trasmettere una discendenza irregolare (e il particolare aspetto fisico di Chénousset) a vari personaggi le cui vicende si intrecciano con quelle della famiglia “ufficiale”.
Il romanzo ha una struttura complessa, le parti raccontate in prima persona plurale fanno da cornice e intermezzo a tre “romanzi” , ognuno dedicato a un personaggio di una diversa generazione: l’infelice Rosina, suo figlio Napoleone, patriota e sacerdote, e Paoletta, figlia di Policleto obbligata dal padre a un matrimonio sbagliato. I tre romanzi appaiono intonati con l’epoca in cui si svolgono: una storia d’amore di stampo romantico (Rosina), una biografia in forma di romanzo storico (Napoleone), un dramma borghese (Paoletta). A unificare i fili della vicenda è l’ambiente: la tenuta del Cucco, con la sua atmosfera antiquata, i suoi oggetti polverosi che ricordano tanto le “buone cose di pessimo gusto” care a Gozzano, i rapporti sociali tra proprietari e contadini; e tutto intorno le pettegole città di provincia, l’affettuosa descrizione dei personaggi minori, la monotona vita borghese.
Ma a colpire il lettore è il semplice piacere di raccontare, con un linguaggio piano, elegante, discreto, un po’ agé e piacevolmente prolisso; con una costruzione impeccabile, un piglio narrativo ottocentesco e un abile uso dei luoghi comuni della narrativa. In fondo una storia del genere è un bell’esempio di un possibile romanzo italiano “popolare”, assente sia nella tradizione “alta” come nell’attuale letteratura di genere che di solito si limita a riproporre modelli elaborati in altri contesti. Qui ci si abbandona con piacere a una vicenda nella quale ci riconosciamo facilmente: per l’ambiente provinciale, per la presenza ingombrante della famiglia, per il contesto storico che bene o male ci è familiare; ci si fa accompagnare da una voce di narratore distaccato e insieme partecipe, sorridente e capace di ironia. E affezionato a ciò che narra: “ma se la verità è stata diversa da quella che noi abbiamo ricostruita, non ce ne importa assolutamente nulla. Per noi è così, anzitutto perché riteniamo che la nostra ricostruzione sia fedele, ma soprattutto perché, così com’è, a noi piace moltissimo”.
PIERLUIGI e ETTORE ERIZZO, Il regalo del mandrogno, Boves (CN) Araba Fenice Libri, 2002.
Giuliano Galletti