Sfogliare le pagine consunte di un proprio vecchio diario, al lume del ricordo, può significare seguire le tracce di una persona in cui ci si riconosce soltanto parzialmente, battere la pista di annotazioni e segni e impronte come alla ricerca di un animale ignoto. Trovarsi dinanzi ad una persona in cui ci si riconosce soltato parzialmente, soltanto per la flebile usta che l’identità con sé lascia sempre, pur tra le alterne vicende che ci invitano, inevitabilmente, al mutamento: nel migliore dei casi, la vita ci pungola all’evoluzione; altre volte, allo scadimento, all’appiattimento sui tratti meno amabili di noi stessi, su quei residui di esistenza con cui, in un modo o nell’altro, dobbiamo fare i conti.
Può significare trovarsi di fronte ad un’opera di Caravaggio, stampata con le ultime gocce di toner e incollata – neppure con troppa perizia- sulla carta sporca di esperienze.
La figura di Narciso, sopratutto nella raffigurazione che ne offre Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, mi è sempre parsa una narrazione della pericolosa esperienza del riconoscimento di sé.
Narciso è chino su di uno specchio d’acqua, su cui la luce propone un temibile gioco di sussurri e parole non dette, di tratti appena accennati: è il suo bel volto che Narciso guarda, pur non riconoscendosi immediatamente.
La prima esperienza che Narciso fa di sé, nel folto bosco che è la vita umana, è segnata dall’alterità: si sente a tal punto diverso da sé, da innamorarsi della figura riflessa sull’acqua, della figura che – forse, almeno in questo momento- neppure si può definire “sua”.
Il soggetto che si ritrova davanti un oggetto dalle sue stesse sembianze non vive automaticamente un momento di autocoscienza; anzi: è nell’istante in cui trova quell’oggetto così simigliante a sé, che la coscienza rischia di non riconoscersi.
Eppure, nulla sembra frapporsi tra lo sguardo di Narciso e l’oggetto che l’acqua e la luce gli propongono: l’aria è tersa, l’acqua è d’un buio piatto e satollo. In verità, in quello spazio tra il volto innamorato e quasi estasiato di Narciso, si dispiega la molteplicità di immagini che l’idea di sé produce per ciascuno di noi – e dunque anche per il giovane ragazzo; la pluralità di volti con cui tentiamo di ritrarre ciò cui ci riferiamo quando, forse troppo ingenuamente, diciamo “io”.
Narciso non riconosce se stesso anche perché la visione del suo riflesso è – se non trasfigurata- almeno viziata dall’aspettativa: certo del suo proprio volto, evidentemente differente dal riflesso che ha davanti agli occhi, Narciso vede sul manto placido dell’acqua un’altra persona. Una persona altra, diversa ma, al tempo stesso – almeno per un tratto-, familiare abbastanza per pungolare d’amore il giovane allo specchio.[1]
La figura di Narciso è mostrata dal Caravaggio nell’atto di sporgersi verso il riflesso, verso l’acqua, con le labbra che sembrano accennare ad un bacio che, forse, non si ha l’ardire di lasciar libero; il pittore sembra voler soltanto accennare alla tragica fine che, d’altro canto, il mito assegna al giovane innamorato di sé, la caduta, l’annegamento: gli dei superi e inferi non lasciano mai impunita la tracotanza.
La meravigliosa grandezza di quest’opera – che deriva direttamente dalla meravigliosa grandezza del suo autore- risiede soprattutto nell’opportunità che ciascuno di noi ha di riconsocersi in quel volto di giovane che, a metà strada tra l’unione e il distacco da sé, ancora forse non sa che potrà riabbracciare se stesso solo nell’abisso di quelle acque oscure; che per poter ritrovarsi, occorre dapprima perdersi.
Emanuele Lepore
NOTE
[1]L’apparente contraddizione potrà esser sciolta guardando alla dialettica incessante tra alterità e familiarità, che l’amore continuamente media. Ma non è possibile neppure tentare di farlo, in questa sede.