Non deviare dalla natura ed il formarci sulle sue leggi e sui suoi esempi, è sapienza
(Seneca)
Secondo l’ultimo rapporto sullo stato delle foreste in Europa (State of Europe’s Forest 2015) il bosco avanza e si riprende i suoi spazi, in Italia quello attuale è infatti il periodo più selvoso della storia nell’ultimo migliaio di anni. Un fenomeno che invita a riflettere sul rapporto tra uomo e mondo naturale, da sempre complesso e conflittuale, che si è evoluto sino ad oggi secondo un doppio registro: da un lato intere regioni sconvolte dal disboscamento e dall’altro l’erosione di pascoli e campi un tempo coltivati ad opera di un bosco che si espande inesorabile.
Il tema del “ritorno alla terra” come risposta ai mutamenti ambientali è al centro di molteplici riflessioni e si manifesta in un’ambiguità di fondo e che da sempre caratterizza l’esperienza umana rispetto al mondo naturale: da una parte il timore dell’oscura vicinanza della foresta e dall’altra il fascino della seduzione del selvatico.
Questa dualità caratterizza già a partire dal Quattrocento la cultura occidentale e di fronte ad un ritrovato interesse per una filosofia “green” è diventata argomento centrale di discussione degli ultimi anni, a partire dalle questioni ambientaliste sul fronte politico internazionale, fino a riflessioni di natura estetica rispetto al valore contemporaneo del paesaggio, ma anche per i significati simbolici che rispetto alla nostra civiltà il selvatico acquisisce. Si pensi per esempio al ritorno della moda delle barbe incolte, un’espressione di costume che ha fatto la sua comparsa dopo la crisi del 2008 per diffondersi oggi come vezzo feticista, ma che si pone in continuità con l’ideale dell’uomo romantico e la sua crisi sistemica dei valori culturali, da cui l’idea di selva come rifugio dell’anima e di libertà che nasce dal confronto tra uomo e natura, perché, come diceva Shelling la natura è vita che dorme, cioè energia in potenza.
La Fondazione Benetton, che da sempre propone un percorso di ricerca incentrato sul paesaggio – un dibattito che ha visto in edizioni recenti trattare i temi Curare la terra (2014) e Paesaggio e conflitto (2015) – ha avviato quest’anno, con il seminario Sul ritorno del bosco, una riflessione critica su un processo di mutamento in atto che coinvolge tutti i paesaggi che ci appartengono, denso di contraddizioni e conflitti, ma anche di segnali di riconciliazione. L’espansione delle foreste interessa sia i paesaggi pastorali e agricoli, caratterizzati oggi da un equilibrio instabile, che la città contemporanea, il disordine delle periferie urbane e la progettazione del verde pubblico. In un tale contesto è interessante analizzare una possibile prospettiva estetica su queste tematiche e chiedersi se l’acquisizione di una maggiore consapevolezza nel “saper vedere” la natura possa essere un fattore funzionale allo sviluppo di una cultura della sostenibilità.
Il sentimento della natura viene promosso da Rosseau nella seconda metà del Settecento contrapponendosi al diffuso spirito matematico-logico dei secoli XVII e XVIII. Troverà poi ampio sviluppo con i romantici, avviando un processo dialettico di contrapposizione tra natura come meccanismo e natura come spazio di contemplazione e di liberazione dello spirito umano, che prosegue tutt’ora. Se l’uomo non ha ormai la possibilità di tornare ad uno stato naturale puro, egli può comunque cercare di comprendere la natura e in parte di prevederla, instaurando con essa un dialogo. Ed è appunto la visione il primo strumento con cui l’uomo entra in relazione con il mondo naturale, lo sguardo estetico è alla base dei sentimenti contemplativi ed emulativi che caratterizzano questa relazione. La natura diventa spettacolo che l’uomo interiorizza e rielabora dando vita all’idea di paesaggio, un concetto che esiste indipendentemente da essa e ne diventa termine di mediazione.
Contrapposto a questo primo tipo di approccio al mondo selvatico, in cui la relazione avviene attraverso un’immagine creata, è invece quello utilitaristico, in cui il bosco diventa oggetto di sfruttamento produttivo, funzionale alla tecnica.
In entrambi i casi però il selvatico, come termine di relazione con l’uomo, assume una connotazione passiva limitandosi a puro oggetto del discorso.
Un esempio recente che illustra tale rapporto passivo tra progresso e natura, portandolo all’estremo di un dialogo inesistente, è il film Ex Machina in cui il “tempio” della technè, ovvero il laboratorio di creazione di intelligenze artificiali -luogo di svolgimento dell’intera vicenda- è completamente circondato dal bosco. Tra i due spazi la relazione è solo visiva: le grandi vetrate dell’abitazione lasciano vedere la foresta all’esterno senza però renderla partecipe degli eventi e mantenendo ad un livello puramente estetico la sua presenza.
Si può considerare inoltre un ulteriore livello di interazione con il mondo naturale, ovvero quello in cui l’uomo tende alla fusione completa con la selva, in un rapporto in cui ne diventa termine passivo. Ma questo tipo di relazione non può che portare alla morte dell’individuo, che inerme viene inghiottito dal bosco, spezzato dalla rigidità delle leggi naturali, e quindi rappresenta una soluzione solo sul piano ideale.
Portando avanti il discorso fatto precedentemente sulla capacità umana di “vedere” la natura, si possono abbozzare interessanti questioni: se esiste un livello estetico di ridefinizione del paesaggio secondo valori antropici, si può pensare quindi ad un’educazione dello sguardo verso il territorio? Esistono poi dei parametri che riescano a definirne i valori autentici? Certo è che la consapevolezza di una coscienza estetica genera nell’uomo la capacità di percepire il mondo naturale più in profondità e quindi di rispettarne e promuoverne i valori, trasformando una ricezione di tipo contemplativo o consumistico, in partecipazione attiva, che permetta di trovare le giuste soluzioni alla sempre più urgente questione ambientale.
Claudia Carbonari