Abituati a pensare che niente è per noi la morte perché ogni bene ed ogni male è nella facoltà di sentire di cui la morte è privazione. Perché la retta conoscenza che la morte è nulla, per noi rende godibile la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitivamente il tempo ma togliendo il desiderio della immortalità. Niente c’è infatti di terribile nella vita per chi è veramente convinto che niente di terribile c’è nel non vivere più.2
Coraggio buon lettore, c’è chi come Epicuro, è intrepido nell’animo e afferma che la morte non è niente per noi: filosoficamente parlando, nella relazione è la morte ad entrare nel non-essere in quanto in sé la vita dell’uomo si viene costituendo contro di essa. Non bisogna temere la morte perché essa è dissoluzione dell’anima, quindi distruzione di esistenza e sensibilità assieme3, secondo la concezione materialista di Epicuro. Per comprendere meglio tale riflessione epicurea, bisogna però riflettere sul significato del termime “anima”. J. Bollack4 parla a questo proposito di corpi dell’anima, concepiti dalla visione fisica epicurea. L’anima è un corpo nel corpo ed è composta di una materia che presenta una certa affinità con il calore e con il soffio vitale. I movimenti dell’anima la cui trama è estremamente sottile, si trasmettono a tutto l’organismo, che è vivente. Le facoltà sensibili, psichiche, intellettuali poggiano su una stretta interdipendenza: l’anima è la causa principale, i corpi la causa secondaria, ma indispensabile della sensazione. Benché l’anima sia la causa principale della percezione, privata dal corpo è impotente. Se il corpo si distrugge, l’anima si disperde e non ha più il suo potere e la sua facoltà di sentire. Infatti esso non possedeva in se stesso tale facoltà ma gliela procurava un’altra realtà nata con lui, cioè l’anima che, con la realizzazione della sua potenzialità determinata dal sentire, secondo il movimento, produce per sé il fenomeno citato della sensazione e la trasmette poi anche al corpo cui è legata da uno stretto contatto e corrispondenza come detto. Non si può concepire l’anima se non nel complesso organico di anima e di corpo. Bisogna però prendere le distanza dal materialismo democriteo: per Democrito l’anima corporea si confonde con gli atomi sferici del fuoco. Epicuro invece, senza polemizzare direttamente questa tesi, la modifica profondamente facendo dell’anima un aggregato come gli altri che formano il corpo, ma opponendolo nello stesso tempo ad ogni materia fisica.
Definita tale unità indissolubile tra corpo e anima, si deve concernere che quando viene a spezzarsi nel suo composto non vi sono più modificazioni – il corpo infatti privato dall’anima non può più provare alcuna sensazione -, non esiste più l’uomo che è un essere di relazione, di affezione, di ricordo e di presenza. L’uomo perciò non è più uomo a livello fisico e tutto, anche la morte, deve essere ricondotto alla fisica stessa che spiega la natura dei fenomeni.
L’uomo, per sua natura, nella sua più profonda integrità è segnato dal dolore e dalla morte, realtà a cui sembra non potersi sottrarre se non con l’attività del pensiero e le teorizzazioni filosofiche. Con l’esercizio della filosofia infatti, che si basa su argomenti razionali, è possibile frenare la paura del morire, come il risultato di una riflessione chiara e corretta su di essa. In questo la paura della morte è, per Epicuro, “irrazionale” solo nel senso di quella parola che è sinonimo di “male” ed “errore”. La paura della morte è una paura razionale nel senso in cui è fondata, sebbene mal diretta, sulla ragione. Questa ipotesi è discutibile, dal momento che potrebbe sostenere che la paura è parte fondamentale e ineliminabile della psicologia umana che non è suscettibile di controllo razionale o alterazione sulla base di argomento razionale.
Tale verità, ossia che in ogni caso la morte sia fondamento dell’uomo, è così stringente e inamovibile per l’essere umano che nonostante i secoli e i millenni, sarà sempre attuale. Lo stesso Freud scrive che «la civiltà nasce da una presa di coscienza del dolore, nasce da una ferita come nevrotica costruzione per mascherare l’ossessionante presenza della morte5». È anche Heidegger a definire l’uomo quale essere-per-la morte6.
Azzurra Gianotto
Note
1 Nell’affermare che la morte è nulla, Epicuro riprenderebbe i versi1 di Epicarmo, un siciliano poeta comico del V sec. a.C., come scrive Sesto Empirico, uno scrittore pirroniano del II sec. d.C., a scredito del filosofo.
«Né la morte né l’essere morto fa alcuna differenza per me» [Epicarmo, ap. S.E. M. I. 273]
Cfr. J. Warren, Facing Death, Oxford, 2004
2 Epicuro, Lettera a Meneceo, 125
3 Epicuro, a cura di M. Isnardi Parenti
4 Epicuro, Episteme ed ethos in Epicuro, a cura di L. Giancola
5 Cfr. S.Freud, Il disagio della civiltà, tr.it., Borignghieri, Torino, 1971
6«La morte è una possibilità di essere che l’esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l’esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l’esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell’esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile.» [Heidegger, Essere e tempo, 1927]