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Al cinema dallo psicoanalista: intervista a Paolo Boccara

Il Festival della Mente di Sarzana, in Liguria, si è concluso solo pochi giorni fa e per La Chiave di Sophia si è trattato di una splendida occasione di arricchimento culturale e umano in cui c’è stato dato modo di conoscere numerosi esponenti del mondo dell’arte e della filosofia. Tra questi abbiamo avuto il piacere di incontrare anche Paolo Boccara, psichiatra romano, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’Accademia del Cinema Italiano. Il suo ultimo libro, pubblicato insieme a G. Riefolo, si intitola Al cinema dallo psicoanalista e, oltre a unire le due più grandi passioni di Boccara, propone una tesi forte sul rapporto tra cinema e psicoanalisi, mettendone in luce non i contenuti, ma la funzione del cinema come apparato produttore di immagini. Una riflessione acuta e mai banale, che abbiamo voluto approfondire rivolgendo a Boccara le seguenti domande:


Cinema e psicoanalisi sono due mondi da sempre molto legati tra loro, cosa l’ha spinta ad avvicinarsi alla psicanalisi e quando invece ha iniziato ad appassionarsi alla settima arte?

La mia passione per il cinema nasce molto prima rispetto a quella per la psicanalisi. Andavo in sala fin da piccolo e sono letteralmente cresciuto con i grandi film degli Anni 60. Quando ho iniziato il mio lavoro come psicoanalista non pensavo avrei mai potuto unire queste passioni ma, alla fine, due motivi mi hanno spinto a farlo: il primo è la capacità del cinema di saper raccontare il mondo della psicanalisi in modo molto caricaturale, prendendo in giro gli analisti e i loro difetti (cosa che spesso mi faceva arrabbiare). Inoltre, con il passare del tempo, mi sono accorto che il cinema riusciva a cogliere dei punti molto significativi del mio lavoro, soprattutto l’importanza dell’aspetto soggettivo dell’analista e di quanto fosse falsa l’idea di un’analista neutrale, che esprimeva giudizi sulla psiche dei pazienti come una moderna sfinge. Ciò che il cinema ha saputo cogliere è la dimensione umana dello psicoanalista ed è stato questo forse il motivo principale che mi ha spinto ad avvicinarmi alla settima arte, continuando in parallelo a sviluppare la passione per il mio lavoro.

La sua recente pubblicazione Al cinema dallo psicoanalista, scritta a quattro mani con Giuseppe Riefolo, si propone di teorizzare un “nuovo cinema dell’immaginazione”. Quali sono stati i film che hanno influenzato di più il suo immaginario di spettatore?
Il mio immaginario è stato influenzato principalmente dai film western che avevano per protagonista John Wayne. Ho sempre identificato il suo personaggio come il mio eroe d’infanzia. Crescendo sentivo molte persone criticarlo per il suo essere di destra e per le posizioni molto forti e schierate dei suoi film, ma ciò che amavo di John Wayne erano i personaggi che interpretava sul grande schermo. Figure ideali che hanno segnato molti momenti chiave della mia vita. Poi, senza dubbio, molte produzioni hollywoodiane mi hanno permesso di conoscere aspetti sconosciuti e mondi lontani. Ho amato il cinema italiano e i film degli Anni 80 diretti da Nanni Moretti, perché in essi ho sempre ritrovato tantissimi aspetti della mia vita personale e professionale.

Paolo-BoccaraIn questi ultimi mesi si sta discutendo molto sulle possibilità che potrebbe offrire il cinema raccontato attraverso la realtà virtuale. Da dove nasce, secondo lei, il bisogno dello spettatore di vivere un’esperienza di questo tipo, in cui si preferisce il fotorealismo alla realtà che ci circonda tutti i giorni?
Il vero problema, secondo me, è come utilizzare la realtà virtuale. L’uso che ne possiamo fare in questo momento è, in realtà, molto delicato e limitato. Io penso che la realtà virtuale sia molto simile all’idea tradizionale di cinema. L’importante è riuscire a uscire dalla realtà virtuale e utilizzarla per vivere al meglio tutte le emozioni che questa nuova tecnologia riesce a creare in noi. E’ molto importante capire quali emozioni riescono a suscitare in noi le immagini e se esse riescono a farci scoprire qualcosa di nuovo sulla nostra personalità. Una volta dopo averne preso coscienza però, dobbiamo stare attenti a non rimanere intrappolati nella realtà virtuale. Quello, a mio modo di vedere, è il rischio più grande che corre lo spettatore usando questa nuova tecnologia.

In alcune occasioni ha dichiarato che lei ha sempre visto la psichiatria come un modo perfetto per avvicinarsi e relazionarsi con le persone. Che cos’è invece per Paolo Boccara il cinema e qual è la funzione sociale che possiede quest’arte?
In realtà la psichiatria per me è sempre stata un mezzo attraverso cui conoscere parti di me che posso utilizzare per scoprire gli aspetti più fragili della mia personalità. In questo contesto la funzione sociale del cinema diventa molto importante perché grazie alle miriadi di storie che può evocare, ti permette di conoscere qualcosa che noi non pensavamo di poter provare o di sapere già. E’ un mezzo rapido, che si può condividere e il suo potere socializzante aiuta non solo a conoscere sé stessi ma anche a scoprire molti aspetti delle persone con cui ci confrontiamo al termine di una proiezione.

Esiste un regista o un attore che avrebbe voluto psicanalizzare? Se sì, quale?
Allora, non avrei voluto psicanalizzare nessun attore o regista in particolare. Mi sarebbe piaciuto incontrare molti di loro, uno su tutti Billy Wilder. Nato come giornalista (aveva anche cercato di intervistare S. Freud senza successo, n.d.r.) è diventato uno dei più grandi registi del secolo scorso, riuscendo a raccontare aspetti umani che all’epoca nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontare sul grande schermo. Uno spirito unico e acuto. Poi sa, penso che conoscere gli attori di persona sia sempre una piccola delusione perché spesso tendiamo a idealizzarli e a identificarli con i loro personaggi. Psicanalizzare la gente di cinema è sempre molto difficile: se si facessero analizzare sul lettino di uno psicologo, si dice, non sarebbero più dei grandi artisti.

La nostra rivista crede molto all’interdisciplinarità della filosofia. Lei cosa ne pensa di questo argomento?
Penso che la filosofia sia una scienza attraverso cui si può conoscere molto l’uomo e, grazie al contributo di molti filosofi e pensatori, ognuno di noi può scoprire qualcosa di nuovo su sé stesso. E’ un aspetto che lega molto la filosofia a quello che è il mio lavoro di analista. Se la filosofia riuscisse, come in parte sta facendo, a essere avvicinabile da un pubblico sempre più grande e ampio, si riuscirebbe senza dubbio a creare un mondo sempre più interessante. L’interdisciplinarità risiede in tutte le cose della vita, quindi l’idea di declinare la filosofia a tutte le discipline è di sicuro un’idea che non va solo lodata ma anche incoraggiata e sostenuta.

Alvise Wollner

[Immagini tratte da Google Immagini]

Alvise Wollner

cinefilo, cinofilo, fotosensibile

Classe 1991, anno della capra, vivo tra Treviso e Venezia. Dopo la maturità classica e le lauree in Lettere e Giornalismo a Padova e Verona, ho pensato che scrivere potesse aiutarmi a vivere. Giornalista pubblicista, collaboro dal 2013 con la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e sono redattore del quotidiano online TrevisoToday dal 2015. […]

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