Se dovessi descrivere il mio rapporto col successo, mi salterebbe subito alla mente il perturbante freudiano: qualcosa che esercita un fascino irresistibile, simultaneamente a paura e repulsione. Questo perché la scalata verso la massima realizzazione e il riconoscimento sociale, seppure appaia una meta allettante, può risultare allo stesso tempo ansiogena – se non terrorizzante – per la prospettiva di un possibile fallimento.
Dopotutto, siamo una generazione cresciuta con la convinzione di poter raggiungere qualsiasi scopo grazie alla sola forza di volontà. Incoraggiati da genitori, favole televisive, uno stato di benessere diffuso e la consapevolezza di un forte stacco generazionale, uno solo è stato il mantra della nostra giovinezza: possiamo qualsiasi cosa, basta volerlo.
E se un problema ci si para davanti, osserva Miriam Goi in L’ossessione per il successo ci sta distruggendo?, ci sarà sempre una soluzione pronta all’uso per risolverlo in totale autonomia, dalle app per dimagrire ai libri per smettere di fumare, dai corsi per “inventarsi un lavoro da zero” ai gadget motivazionali (You have as many hours in a day as Beyoncé, recita uno slogan tanto incoraggiante quanto minaccioso). Il mantra si rivela così un’arma a doppio taglio, poiché non solo il trionfo ma anche l’insuccesso dipendono interamente e solamente da noi stessi: il fallimento è impietoso e si consuma in solitudine.
E così non importa quanto siamo stanchi, sottopagati, tristi, malati: il nostro profilo Instagram dovrà sempre e solo mostrare una versione perfetta della nostra vita, in una costante ansia da prestazione e rincorrendo desideri che non sappiamo neanche se definire genuini o indotti.
Forse è per questo che, specularmente a questo meccanismo, se ne instaura un altro, inconscio, difensivo, che disincentivando all’azione schiva il possibile fallimento: la procrastinazione. Come argomenta Oliver Bukerman (in L’ossessione per la perfezione ci fa rimandare le cose) la procrastinazione è solo paura mascherata, paura che deriva da standard troppo alti: se il progetto che abbiamo in mente (la carriera, una relazione amorosa, ristrutturare casa, ecc.) rischia di non essere perfetto, meglio rinunciare – anzi, rimandare. Perché l’eterno procrastinatore, ovvero l’eterno perfezionista, non può ammettere di voler rinunciare, può solo temporeggiare per non affrontare quello che teme di più al mondo: l’inadeguatezza rispetto alle aspettative (proprie e altrui). In una parola, la banalità.
Non siamo più figli di un platonismo che insegna innanzitutto ad accettare i limiti umani, assumendo che sia impossibile raggiungere la perfezione (esclusiva ultima del mondo delle idee), ma che tale perfezione sia piuttosto un modello per guidarci in un mondo ontologicamente imperfetto. Oggi, al contrario, se considerare la perfezione alla portata di tutti da un lato ci sprona a inseguire i nostri sogni più coraggiosi, dall’altro ci porta a colpevolizzarci per i nostri limiti, ossessionarci fino alla psicosi, mentire a noi stessi per proteggerci. Ci hanno insegnato ad essere ottimisti, fino a non saper gestire le sconfitte. Mentre è proprio il pessimismo l’unica soluzione: il partire dal presupposto che le cose potrebbero, non sicuramente ma con una certa probabilità, andare male, ci aiuta ad accettare la possibilità del fallimento come parte del processo, a porci una meta con una approssimazione meno precisa, a ritagliarci un margine di errore. E ci permette di buttarci, come quando da bambini ci buttavamo a giocare senza paura di sbucciarci le ginocchia (perché tanto sì, ce le sbucceremo).
Rinunciare al mito della perfezione per abbracciare la perfettibilità della realtà: ripartire da Empedocle, quando sosteneva che la vera perfezione è l’imperfezione, perché offre sempre infinite possibilità di miglioramento.
Anna Merenda Somma
Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.
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