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Angelo Morbelli: un’interpretazione magistrale della vecchiaia

Angelo Morbelli (1854-1919), considerato tra i più grandi maestri della pittura divisionista, fu uno dei maggiori interpreti di un’arte non banale, socialmente impegnata, che si discostava nettamente dalla produzione esteticamente appagante della maggior parte dei pittori operanti a cavallo tra Ottocento e Novecento, intenti soprattutto a presentare immagini quasi idilliache di ricche contesse a passeggio, o di arcadici paesaggi di un’Italia però estremamente povera e tutt’altro che felice. A differenza di questo filone pittorico fatto di fastosi ritratti e di scene di genere vezzosamente malinconiche, l’arte di Morbelli, così come quella di altri artisti coevi, riflette su una serie di tematiche difficili, scomode se vogliamo, che prendono in considerazione una fetta di mondo fino ad allora rimasta in penombra, la quale, portata così alla luce e mostrata pubblicamente nelle più prestigiose esposizioni artistiche, diventa immediatamente soggetto artistico di un’inedita forza lirica, talvolta destabilizzante nei suoi risultati o violenta nelle sue denunce sociali.

Se da una parte è estremamente interessante tutta quella produzione artistica mirata a un’analisi oggettiva della vita della classe operaia e delle sue lotte, condotta da Morbelli con una serie di dipinti sulle mondine piemontesi e da Pellizza da Volpedo con il celebre dipinto Il Quarto Stato, è la continua e quasi ossessionante riflessione sul senso della vita e sulle sue diverse fasi, portata avanti costantemente da entrambi gli artisti, ad affascinare maggiormente me e molti altri spettatori contemporanei. In particolare, a partire dal 1883 Angelo Morbelli cominciò a cimentarsi in una serie di dipinti dal soggetto del tutto inusuale, che gli avrebbero portato grande successo negli anni a venire: si tratta delle opere che immortalano la vita degli anziani ospiti del Pio Albergo Trivulzio, celebre ospizio milanese.

Quello della vecchiaia non figura certo tra i temi più affrontati nella storia dell’arte, eppure il grande artista di origini piemontesi riesce a trarne una riflessione profonda che appare fin da subito di grande modernità, e che sembra accompagnata, a tratti, da un filo di angoscia, suggerita dalle cromie spesso cupe e dall’atmosfera talvolta pesante presente in alcuni dipinti di questa serie. L’obiettivo dell’artista è quello di descrivere la fase conclusiva della vita di una persona sotto l’aspetto sociale, affettivo e psicologico, motivo per il quale il Pio Albergo Trivulzio è facilmente risultato come luogo ideale per l’ambientazione di queste scene. Infatti in un luogo di aggregazione sociale si creano facilmente legami tra i soggetti, specie nei momenti di vita comune, caratterizzati dal continuo fluire dei ricordi nei discorsi dei protagonisti. Sono onnipresenti, tuttavia, anche situazioni di solitudine, mascherata dalla presenza di più figure nella scena ma spesso palpabile dal tenore delle immagini raffigurate, impregnate da un senso di malinconia legato alla consapevolezza dell’inevitabile raggiungimento del traguardo finale della propria esistenza.

Proprio sulla scia di queste considerazioni, Morbelli dipinse un piccolo ciclo di sei dipinti, tutti ambientati nel Pio Albergo Trivulzio, appositamente per la Biennale di Venezia del 1903, a vent’anni dai suoi primi esperimenti su questo tema. Il ciclo, denominato Il poema della vecchiaia e recentemente esposto nella sua interezza alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, spiega coerentemente già dal titolo il tipo di impronta che l’artista ha voluto dare al soggetto. Non c’è patetismo, ma c’è compassione, un velato e quasi distaccato senso di coinvolgimento cui l’autore, sgarrando celatamente ai dettami di una pittura oggettiva, non riesce a non cedere. Perché, in fin dei conti, dietro quelle straordinarie composizioni pittoriche sta il destino di ciascuno di noi, un destino inevitabile, che emerge drammaticamente dall’accostamento di Vecchie calzette e Sedia vuota: medesima scena delle vecchie donne che filano e medesime posizioni, ma nel secondo dipinto manca una persona, da poco defunta e compianta dalle sue compagne. L’azione del filare, costante nei dipinti di questa serie, sembra diventare a questo punto una sorta di allegoria della vita, la quale dura fintantoché c’è filo per lavorare: quando finisce il filo, te ne vai silenziosamente, senza che nessuno ti possa accompagnare, perché, come diceva pure De André, “quando si muore, si muore soli”.

Cosa resta dunque della vita, quando ci si trova ormai a fare i conti con un eterno presente che attende soltanto che cali l’ombra sul nostro esistere? Restano essenzialmente i ricordi, quelli che, per quanto distorti possano essere, ciascuno narra con orgoglio nei momenti più conviviali, per esempio a mensa, come accade nel dipinto Mi ricordo quand’ero fanciulla. Si arriva così, inevitabilmente, a fare una somma della propria vita, del proprio passato, con tutti i rimorsi, le gioie e gli errori commessi, che emergono più vividi nei momenti di solitudine, quando, bella o brutta che sia stata la vita, ci si ritira in preghiera auspicando comunque di restare un altro po’, come accade nel dipinto Il Natale dei rimasti, nel quale il forte senso di solitudine percepibile diviene esso stesso condizione di vita e senso di impotenza di fronte all’inesorabile trascorrere del tempo.

Una così raffinata riflessione artistica sul senso della vita al suo declino è una perla rara nel fitto intreccio della storia dell’arte, e dimostra senza dubbio, così come in altre occasioni, che l’arte italiana tra Ottocento e Novecento non può e non deve restare all’ombra dell’arte d’Oltralpe, capace sì di grande poesia pittorica ma spesso priva, almeno per quanto riguarda i nomi più celebri, di momenti così elevati per il pensiero umano.

 

Luca Sperandio

 

[Photo credit Wikipedia]

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