Per poterci orientare nel mondo, inteso come contesto socio-culturale nel quale ci troviamo, sono necessarie delle conoscenze. Queste portano perlopiù sull’insieme di regole che dobbiamo seguire per rapportarci adeguatamente gli uni gli altri, regole che ci vengono trasmesse fin dalla giovinezza da istituzioni come la famiglia e la scuola, e di cui sperimentiamo la forza quando usciamo di casa.
L’importanza del rispetto delle regole, che ci viene insegnata soprattutto mediante la paura della punizione in caso di trasgressione, ci abitua ad adattarci al modo in cui la società funziona e si forma in noi il senso della necessità di conformarsi. Contraiamo così delle abitudini, che ci portano ad agire in vari modi senza interrogarci a riguardo. Ed in questo senso l’abitudine diventa come una seconda natura1.
Questo nostro senso di adattamento si estende però a tutta una serie di pratiche che non sono direttamente riconducibili alle leggi, ma piuttosto alla contingenza del contesto sociale: modo di vestire, attività ricreative, interessi, carriera e in generale tutto ciò che è ritenuto prioritario o migliore. E poiché tutto intorno a noi sembra andare bene, non ci poniamo il problema se queste priorità siano tali legittimamente, e se “ciò che è meglio fare” lo sia veramente.
Ora, risulta chiaro che le conoscenze di questo tipo sono informazioni che ci vengono trasmesse da qualcuno: sono quindi conoscenze di seconda mano. Il nostro modo di pensare stesso è condizionato da quello che ci è stato insegnato nella nostra giovinezza, e se ci proviamo difficilmente riusciremo a render conto di tutto ciò a cui diamo il nostro assenso. Ma ci proviamo mai? Siamo abituati ad accettare pigramente senza indagare, senza porre in questione solo perché intorno a noi si fa così, e mettere in discussione i fondamenti della nostra vita di tutti i giorni ci spaventa. Così prendiamo tutto per buono e crediamo soltanto di sapere un mucchio di cose, perché sapere significa inevitabilmente essere in grado di giustificare1.
Questa necessità di interrogarsi su quello che facciamo emerge lampante nell’Apologia di Socrate di Platone. Socrate vuole mostrare a ciascuno che non vive secondo ciò che è giusto, ma secondo ciò che pensa essere tale. Non solo, Socrate lavora ad un secondo livello: egli sottolinea l’inconsapevolezza dell’ignoranza in cui si trovano i suoi interlocutori, che non sanno di non sapere. Tutti ci comportiamo seguendo questa nostra seconda natura che è l’abitudine, ma questo vuol dire subire il contesto ed esserne assorbiti. Ci allontaniamo da noi, e in questo senso siamo alienati. L’ignoranza della nostra ignoranza è la sostanza stessa di questa alienazione, che in quanto tale ostacola una reale presa di coscienza di noi stessi: «Mi sembrò che quest’uomo apparisse sapiente a molti altri e soprattutto a lui stesso, ma non lo fosse. Perciò cercai di dimostrarglielo. E così diventai odioso a lui e a molti dei presenti» (Platone, Apologia di Socrate, 21c).
Socrate non ha una conoscenza più profonda dei suoi concittadini su checchessia, ma possiede la semplice quanto determinante consapevolezza che non sa realmente nulla. E questa è una prima forma di conoscenza di sé e quindi di libertà: svuota lo spirito di tutte le false idee che gli impediscono di indagare poggiandosi non su quanto detto da altri, ma soltanto sull’osservazione della natura stessa della cosa, non facendosi guidare nelle sue analisi che da essa.
Il nostro apparente benessere, perlopiù materiale, ci fa credere che tutto vada bene, e ci fa abbracciare immediatamente tutti i cosiddetti valori del contesto nel quale viviamo. Ma questo significa essere persone di seconda mano, comportarci in base alla contingenza dei tempi e non a ciò che veramente è degno di un uomo.
Non è facile mettere in discussione tutto ciò: significa contestare ciò che sentiamo essere la nostra identità, ciò che fin da bambini riteniamo giusto. Nondimeno è fondamentale fare questo sforzo, per non cadere nell’errore degli ateniesi di fronte al loro uomo più saggio: «Se mi condannate non troverete facilmente un altro che venga assegnato dal dio alla città come ad un cavallo grande e nobile, ma pigro a causa della sua grandezza e bisognoso di essere svegliato da qualche tafano. Ma può darsi che voi, che vi irritate in fretta e mi picchiate, come gente che casca dal sonno buttata giù dal letto, mi condanniate facilmente a morte, per continuare a dormire» (ivi, 30e).
Per la cronaca, Socrate è stato condannato.
NOTE
1. 1. Su questo tema cfr. Rousseau, Il contratto sociale, I, 2: «Gli schiavi perdono tutto nelle loro catene, finanche il desiderio di liberarsene: amano la loro servitù come i compagni di Ulisse amavano il loro abbrutimento».
2. Ciò che distingue il sapere scientifico dalla credenza e dalla fede è precisamente il fatto che ognuno, in teoria, può verificare tramite esperimenti la validità delle leggi.
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