Candidato a otto premi Oscar, nelle sale in questi giorni, Arrival è il nuovo film del regista canadese Denis Villeneuve, noto al grande pubblico per pellicole come Prisoners, Enemy e Sicario. Aspettando l’attesissimo seguito di Blade Runner Villeneuve si cimenta con grande maestria nel genere della fantascienza, non tradendo le aspettative.
Dodici astronavi aliene, nere come la notte e con la forma di un grande guscio, arrivano sulla Terra, stazionando ognuna in un punto diverso del globo. La vicenda si intreccia con la vita della linguista Louise Banks (Amy Adams), reclutata per poter comunicare con la nave del sito nel Montana, negli Stati Uniti. Completa il team di ricerca il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner). I due, assistiti dal colonnello Weber, cercheranno di instaurare un dialogo con gli alieni arrivati sulla Terra, in un crescendo di eventi che si legheranno profondamente alle loro vite.
Di navi aliene che arrivano sulle Terra, con intenzioni più o meno pacifiche, il cinema è pieno. Villeneuve invece di seguire il tema della distruzione e dell’inevitabile scontro per la salvezza dell’umanità, decide di approcciarsi alla fantascienza in modo più romantico e lieve, descrivendo un incontro di culture. Due mondi diversi, lontanissimi tra loro, razze agli antipodi che decidono di condividere invece di annientarsi. È una fantascienza nuova; gli eroi non sono più guerrieri senza macchia e paladini indomiti della razza umana, ma semplici uomini e donne, scienziati il cui desiderio di conoscenza dell’ignoto va oltre la paura della morte e della fine.
In questo Villeneuve ci riconduce a film come Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg) o a Contact (Zemeckis) o al più recente Interstellar (Nolan), dandoci l’opportunità di vedere l’altro, l’alieno, non come uno spietato colonizzatore ma come una creatura fragile e spaventato al pari dell’essere umano.
Il grande guscio nero di Arrival ricorda inevitabilmente e con grande forza il monolite Kubrickiano, archetipo e simbolo di conoscenza che qui si manifesta tramite il linguaggio, la potente arma che permea tutto il film, capace di piegare e spiegare il tempo a suo piacimento. Nella pancia dell’astronave il bianco e il nero alieni illuminano e oscurano, lasciando i protagonisti della storia e noi spettatori, sospesi in una dimensione ovattata e distante. I due colori così presenti e vivi sono il foglio e l’inchiostro tramite i quali prendono forma le lettere di questa nuova e misteriosa lingua; dei grandi cerchi neri che metaforicamente simboleggiano la vita e il tempo. La lingua è il motore e la linfa vitale di questo poema spazio-temporale di cui Louise è l’eroina, la prescelta portatrice di un grande dono. La sua vita si svolge e si riavvolge, torna indietro e poi avanti, in una giostra di flashback e voci fuori campo narrata poeticamente, con l’aiuto di una grande fotografia e di una colonna sonora che tiene sempre alto il battito cardiaco.
Abituati a vedere umani che parlano in inglese ad esseri provenienti dallo spazio profondo e che impugnano il fucile ancora prima di comprendere chi hanno di fronte, si rimane piacevolmente colpiti dal vedere alieni che gettano inchiostro su uno schermo bianco e che di fronte hanno gli occhi lucidi e carichi di emozione di un’ottima Amy Adams. Con l’ingenuità di una bambina impugna una penna e scrive HUMAN su una lavagna bianca. La più semplice delle parole per descriversi, carica di un significato così complesso e grande.
Lorenzo Gardellin
[Immagine tratta da Google Immagini]