Il passato non lo si deve per forza leggere. Il passato lo si può anche ascoltare.
Questa mattina ho incontrato una coppia di francesi sulla settantina. Lui, discendente di una famiglia di contadini trevigiani emigrati in Francia nel primo Novecento. Lo vedevo per la prima volta, ci avevo scambiato soltanto qualche parola al telefono un paio di giorni prima. Eppure mi ha raccontato, con tanto di albero genealogico alla mano, un pezzo di storia, decisamente dettagliata, della propria famiglia.
Quanti di noi conoscono le proprie origini familiari? Quanti possono dire di essersi interfacciati con la storia dei propri predecessori? Quanti si sono relazionati con il proprio passato, quello vivo, quello carnale, non quello alto della storia istituzionale?
Oggi questa rubrica non apre nessun libro, ma umilmente vuole consigliare, augurare, forse anche raccomandare, di tendere un orecchio verso il proprio passato familiare, paesano, locale. Un passato di piccole dimensioni, ma che inevitabilmente, anche se può non sembrare, anche se lo vogliamo occultare, finisce per condizionarci tutti nel nostro intimo.
Una ragazza, sempre questa mattina, mi ha detto che l’identità è una porta aperta: alcune caratteristiche o particolarità del nostro essere vengono, altre se ne vanno. Le nostre origini, il nostro ieri, stanno sulla soglia di quella porta aperta. Aspettano solo che qualcuno le inviti ad entrare.
Federica Bonisiol
[Immagine tratta da Google Immagini]