Spesso si dice che uno sguardo vale più di mille parole. Nonostante io gareggi nel team delle parole, finisco col convincermi della verità di questa massima mentre osservo in anteprima le fotografie in allestimento alla mostra che presto inaugurerà presso Ca’ dei Carraresi a Treviso, 100 attimi. Fotografia di strada. Certo, bisogna che questo sguardo sia sapiente, riflessivo, incessantemente indagatore – come quello di un bravo fotografo. Incontro allora Umberto Verdoliva, fotografo e curatore della mostra (visitabile dal 2 al 13 settembre 2016 nel capoluogo veneto), e cerco di scoprire da lui che cosa si celi dietro quello sguardo così prodigioso, ma anche qualche prospettiva su quello che gli sta davanti: l’umana realtà quotidiana.
1) La fotografia è nata nella prima metà dell’Ottocento quando si ricercava una più rapida e più fedele riproduzione della realtà, apparentemente possibile soltanto attraverso la scienza e la tecnica; solo in un secondo momento è diventata un’arte. Con la tecnologia di cui ciascuno dispone oggi, chiunque può scattare una foto, mentre naturalmente cala il numero di persone che può progettare e realizzare un’architettura oppure una composizione musicale. Che cosa dunque contraddistingue la fotografia “da album delle vacanze” da un oggetto d’arte?
La fotografia oggi è alla portata di tutti e ciò comporta una continua produzione d’immagini al punto tale che potremmo parlare di un vero e proprio spreco di fotografie. Il processo in atto è talmente ampio e complesso che è difficile per me immaginarne il futuro. La massificazione della fotografia ha trasformato quest’ultima in continui appunti visivi da utilizzare nei social, dei veri e propri “post it” che vengono in breve tempo accantonati e dimenticati negli hard disk e nelle diverse memorie di smartphone e pc; invece, se la fotografia è supportata da un’idea, da una visione personale, da un progetto, continua ad essere quella che era un tempo cioè uno strumento di documentazione, racconto, mezzo di espressione, testimonianza, memoria storica, occasione di aggregazione e socializzazione. In questo senso la fotocamera è uno strumento che potrebbe dar vita a dei veri e propri “oggetti d’arte”; di conseguenza ha molta importanza il pensiero di chi si approccia alla fotografia e il senso che vuole attribuire ad essa.
2) L’immagine del fotografo è spesso quella di una persona sola e attenta dietro al suo obiettivo mentre è a caccia… di cosa è a caccia? Perché si diventa fotografi e perché lei è diventato fotografo?
Ogni fotografo ha un suo percorso personale. Ho scoperto la fotografia per caso, in età matura e con una professione diversa già avviata e consolidata. E’ iniziato un percorso che mi ha portato a scoprire non solo la bellezza del quotidiano e a collezionare momenti che assumono un significato particolare, ma a partecipare alle vicende umane restandone inevitabilmente contaminato. E’ questa la bellezza della fotografia di strada: l’incontro con l’umanità; un incontro che non si riduce a un catturare un istante ma è un entrare in contatto con la dimensione esistenziale più profonda, quella nascosta nei piccoli gesti e/o nelle espressioni di un volto o di una situazione particolare.
Non mi sento un fotografo ma un uomo che utilizza la fotografia per mostrare agli altri oltre alla quotidianità anche se stesso; è un modo per comunicare la mia visione delle cose, del mondo e la mia sensibilità.
3) A parte in alcuni casi (quasi ovvi) o per specifiche “serie”, le sue foto sono in bianco e nero: che cosa offre in più la mancanza dei colori?
La maggior parte delle mie foto sono in BN, ma non perché ci sia una chiusura verso il colore, anzi, ho serie nate e pensate a colori ed amo moltissimi fotografi che lo sanno utilizzare al meglio.
L’uso del BN deriva essenzialmente dal fatto che sono portato più a “celebrare” la vita e ad enfatizzare il lato emotivo della memoria e il BN mi sembra più adatto rispetto a quello della cruda realtà che attribuisco maggiormente al colore. Il BN, come del resto anche il colore, fanno parte entrambi della mia visione della realtà e li scelgo ogni qualvolta li reputo più adatti a rappresentarla; fotografare in BN o a colori non ha molta importanza, dipende cosa meglio si adatta a ciò che voglio mostrare.
4) Il suo lavoro come fotografo si ascrive a quel genere denominato “street photography”, mentre quotidianamente veste i panni dell’architetto-urbanista. Quanto i suoi studi e il suo lavoro hanno influito sul suo sguardo da fotografo? E come può descrivere, a me neofita, la street photography?
Molti attribuiscono la pulizia compositiva e le geometrie spesso presenti nelle mie fotografie al fatto che abbia studiato materie come disegno tecnico o progettazione architettonica. Probabilmente ha influito, ma avere cura della composizione fotografica è stato assolutamente naturale. Compongo l’inquadratura velocemente e quasi sempre in maniera pulita e lineare.
Descrivere adeguatamente la street photography è molto difficile, ogni definizione ha i suoi limiti. I confini sono talmente labili da confondere spesso anche chi la pratica da anni. Una definizione di Luciano Marino descrive bene che cosa rappresenta per me: «La street photography è la fotografia che fa dell’inquietudine il motore per la ricerca dell’umano e delle sue rappresentazioni. E’ quindi un intenso atto di scoperta, di avvicinamento, di contaminazione. Diventa il mezzo per partecipare alla vicenda umana, cogliendone la raffigurazione quotidiana, la sua messa in scena».
La parola “street photography” è solo un termine che identifica una certa attività, come esiste il fotografo di moda o il fotografo di matrimoni o il fotografo paesaggista e così via, essa identifica l’attività di un fotografo che sceglie di raccontare il quotidiano e le infinite interazioni tra genti in spazi di condivisione comune seguendo determinati approcci essenzialmente personali, pertanto molto variabili. Le diatribe infinite e le tante polemiche orientate a una ricerca di regole o definizioni le trovo inutili e destabilizzano la considerazione di chi ha scelto questa attività con consapevolezza.
5) Quando penso alla strada ed alla sua vitalità mi appare sempre alla mente una delle prime scene de Il favoloso mondo di Amelie, quando la protagonista aiuta il vecchio signore cieco ad attraversare la strada e gli racconta ciò che vede, gli descrive gli odori che sente, raffigura ciò che succede. La strada è un microcosmo di attività e di sensazioni di cui facciamo esperienza più o meno tutti i giorni, ma ad una tale velocità e con tanti pensieri nella testa che ci impediscono di vedere veramente qualcosa. Si può dire che la street photography aiuta noi, nuovi ciechi distratti, a notare tutto quello che ci perdiamo?
Nella domanda credo ci sia implicitamente anche la risposta. Infatti, è la dimostrazione di quante possibili descrizioni/definizioni può avere la street photography. Attraverso l’occhio di chi fotografa si possono vedere cose che non vedi o a cui non fai caso; camminando per le strade puoi sentire, spesso distrattamente, senza esserne consapevole, gli odori e le atmosfere di una città, ma la fotografia, se praticata consapevolmente, ti porta all’incontro con l’altro. Un incontro a volte sfuggevole, altre volte vissuto e condiviso, ma che quasi sempre lascia un segno: sia nell’osservatore, che può restare colpito, affascinato, sconcertato e sorpreso da come mostri il quotidiano e dalla tua idea, sia in chi fotografa. Più l’osservatore ne resta coinvolto e più hai raggiunto il tuo scopo e tutto questo diventa linfa continua per il tuo cercare.
6) Parliamo ancora un po’ di questo specialissimo set. Lei vive a Treviso, che oltretutto è molto vicina ad una città completamente sui generis come Venezia, ma ha avuto modo di visitare e vivere anche altre città italiane, nonché all’estero. Come cambia la vita della strada e la visione che si può avere di essa di Paese in Paese? Che cosa si cerca nelle strade di New York che è diverso (o magari che è uguale) rispetto a ciò che si ricerca a Treviso o a Praga? C’è poi un’altra città, che esiste e che non esiste, che lei definisce “Mental City”: cos’è e che cosa ha di così peculiare?
Mental city è un progetto fotografico che rappresenta una mia visione di Treviso. Ci vivevo da poco e la prima impressione è stata quella di una città elegante, discreta, che ti permette di isolarti e di perderti tra i portici e per le sue strade silenziose. Era una città che non conoscevo ancora e quella è una sintesi mentale dell’idea che avevo di essa e la realtà conosciuta nel tempo; ne sono rimasto molto colpito ed è stato naturale per me rappresentarla fotograficamente così.
Un buon fotografo di strada è un attento osservatore e le sue ricerche e riflessioni spesso dipendono anche dal luogo in cui vive, pertanto quello che cerchi e trovi può variare da città a città e condiziona inevitabilmente la fotografia. Una foto scattata a New York è molto diversa da una foto scattata a Firenze, e non solo per il differente impianto urbanistico, ma soprattutto perché entrambe esprimono una propria essenza totalmente diversa e caratterizzante. Una delle sfide di chi fotografa è riuscire a cogliere questa essenza e saper raccontare attraverso le immagini uno dei tanti volti di una città.
Così descrivere una città come Napoli, partendo dalla stessa idea che mi ha spinto a fotografare, ad esempio Treviso, porta ad un risultato diverso, perché l’anima della città è diversa; ma allo stesso tempo fotografare la stessa città da un’altra prospettiva e con un’idea differente, la stessa risulta originale e nuova. L’idea dell’autore e quello che vuole mostrare è sempre determinante. La fotografia di strada è versatile e se devo parlare di una regola importante, dico che, in spazi pubblici e d’interazione tra le persone, la spontaneità del momento e la non costruzione della scena sono degli elementi fondamentali per cogliere aspetti peculiari di un vivere quotidiano; anche lì però possono esserci delle deroghe, per me è importante il cammino che nel tempo fa l’autore con la sua fotografia al di là di regole e consuetudini.
7) Ogni giorno e ad ogni ora, decine, centinaia, migliaia di persone brulicano nelle strade, di tutti i tipi i colori e gli scopi; le sue fotografie ne hanno colto aspetti intensi, casuali, divertenti – basti pensare alla sua serie Sex and the City o Prisoner of the Privacy. Pensa di aver imparato qualcosa di più sul genere umano guardandolo attraverso il suo obiettivo?
Sicuramente sì. La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro: ho imparato a capire e prevedere le reazioni, a essere discreto e allo stesso tempo furtivo per cogliere espressioni oggettivamente difficili da prendere in posa; cerco di mostrare le persone come se fotografassi la mia famiglia, con amore e rispetto, pertanto non ho timore di loro. Inoltre, con la fotografia mi diverto tantissimo e il mio senso ironico emerge spesso. Chi guarda le mie immagini percepisce immediatamente la grande passione che mi anima e quanto mi diverto per strada: la passione è contagiosa e la trasferisco con piacere.
8) Non posso fare a meno di cogliere alcuni aspetti di irrealtà nelle sue foto: in alcune di esse infatti, attraverso sovraesposizioni, riflessi fortuiti e fortunate casualità, riesce in qualche modo a cristallizzare una realtà parallela, spesso ironica oppure onirica. Quale significato ha dunque per lei il concetto di “realtà”?
Quando per anni sei in strada a fotografare l’umanità, l’ambiente e le relazioni, sviluppi delle visioni sempre più complesse, vai oltre il semplice sguardo su ciò che c’è intorno a te. Approfondisci, entri nella realtà a tal punto che puoi riuscire anche a stravolgerla. La fotografia dà questa possibilità e personalmente questo mi attira particolarmente; la complessità degli sguardi, la reinterpretazione della realtà attraverso punti di vista o prospettive inusuali, far soffermare l’osservatore rendendolo instabile nelle sue certezze, mostrare cose non intuibili a prima vista ma che sono davanti ai nostri occhi è il mio principale obiettivo. La realtà la puoi immortalare e la puoi ricreare, non è per me una dimensione stabile e univoca.
9) Il 2 settembre presso Ca’ dei Carraresi a Treviso verrà inaugurata la mostra 100 attimi. Fotografia di strada, di cui lei è il curatore e che resterà allestita fino al 13 settembre. Essa raccoglie cento fotografie, da qui al titolo il passo pare breve. Che cosa rende questi attimi così speciali? Perché questa mostra?
Se sono attimi effettivamente speciali lo lascerei dire ai visitatori, la mia speranza è attirare interesse, incuriosire e avvicinare il pubblico al tipo di fotografia, dare una risposta esclusivamente con le immagini a chi cerca di capire cosa è la street photography. Sono cento istantanee che rappresentano, per me, il buon livello raggiunto oggi dalla fotografia di strada italiana. È un confronto e una presa di coscienza anche rispetto alla street photography internazionale che fino ad oggi ha dettato i tempi, le mode e le tendenze. Ho scelto le fotografie attingendo dai lavori di autori che fanno parte di collettivi fotografici tra i più stimolanti in Italia, focalizzando l’attenzione verso questa forma di aggregazione inusuale per il genere, anche se non nuovo nella storia della fotografia: dal gruppo Mignon, collettivo storico padovano, a Spontanea, InQuadra e EyeGoBananas, collettivi giovani e con autori interessanti che si mettono in gioco continuamente per migliorarsi, formatisi in questi ultimi anni sull’interesse di massa verso il genere. Insieme a loro esporranno sei autori veneti di cui apprezzo il talento e la passione per questo tipo di fotografia.
Una mostra che ha il compito di presentare, a chi non conosce ancora la street photography, quanti possibili approcci e visioni possono esserci nel praticarla, quanto sia difficile e non banale cogliere attimi significativi, di quanto lavoro in termini di tempo e di confronto ci sia alle spalle ma soprattutto del legame sempre presente con la Fotografia e i grandi maestri di un tempo. Il mio intento è che essa riveli non solo qualità – molte delle foto presentate sono state selezionate e riconosciute valide in numerose manifestazioni internazionali importanti – ma, lontano da termini e definizioni, i tanti possibili volti della fotografia di strada. Un piccolo tributo a quanti la praticano con passione e una occasione per stabilire un punto d’incontro fisico e non virtuale tra noi.
Vorrei inoltre lasciare un consiglio a chi vuole avvicinarsi alla street photography o la pratica da poco, di farlo con grande umiltà evitando quei processi autoreferenziali che mistificano qualsiasi riconoscimento che credo debba arrivare da più parti nel tempo e in maniera assolutamente naturale. Viceversa, non si aiuta la fotografia di strada ad essere presa seriamente in considerazione.
10) Per noi la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno. Che cos’è invece per lei la filosofia?
Se la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno, allora ci sono tanti punti in comune con la fotografia, che attraverso gli occhi di qualcuno continuamente indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana. La realtà e la verità sono due parole chiave della filosofia, così come anche della fotografia, poiché entrambe le ricercano incessantemente.
Osservazione della realtà e ricerca della verità (o di una verità) sono dunque due punti di contatto tra fotografia e filosofia, entrambe sono degli strumenti che ci aiutano a trovare delle risposte – la prima tramite l’estetica e l’immagine, la seconda attraverso la sfera razionale e la parola. Entrambe indagano l’uomo e ne fanno anche la storia. Sono personalmente molto affascinata da queste fotografie, forse proprio perché me ne vado per il mondo il più delle volte distratta dalla mia interiorità e dalle mie domande, senza accorgermi dei dettagli visivi in cui si trovano alcune risposte. Per esempio, che la vita va presa anche con una buona dose d’ironia, o semplicemente con più leggerezza. Penso ai versi immortali di Shakespeare, “Il mondo è un palcoscenico, / e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori”; in queste foto però non ci sono quasi mai attori. E’ un po’ come il Gengè Moscarda di Pirandello che vuole vedersi vivere, perché appena si vede riflesso non riconosce più se stesso, si scopre inevitabilmente a recitare. In un certo senso in queste fotografie vediamo noi stessi, come siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando o giudicando – forse allora solo la fotografia, l’occhio di qualcun altro, è capace di mostrarci come siamo. Nonché di mostrare nero (o colori) su bianco le nostre invariabili incomprensibilità e le nostre innate contraddizioni, il nostro voler stare insieme pur richiudendoci a volte in noi stessi, dentro e fuori, definiti o evanescenti. Delle realtà multiformi che si cristallizzano nel momento dello scatto, e che così diventano memoria di noi per i posteri, ma anche per noi stessi. «La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro», ha detto Umberto; ciò che trovo incredibilmente sorprendente è proprio che anche io, io del tutto ignorante in materia di fotografia, osservando queste immagini, all’improvviso mi scopro a capire qualcosa di più di me stessa.
Giorgia Favero
Per approfondire il lavoro di Umberto Verdoliva: sito ufficiale, flickr, Facebook.
Qui tutte le informazioni relative alla mostra.
Tutte le immagini sono di proprietà di Umberto Verdoliva.