Basta assaporare un po’ l’aria che si respira a Venezia, l’aria della Biennale fuori dai salotti buoni e dalle feste esclusive, per capire che più che di fronte a un humus culturale si sta sprofondando nella stagnazione culturale.
Interessante è anche il titolo Viva Arte Viva, che sembra più una preghiera che una sua concretizzazione, un auspicio disatteso, perché solo delle cose che sono già morte ne si invoca la vita, le cose vive sono vive e non hanno bisogno di qualcuno che lo rimarchi.
La Biennale è diventata, e una volta non lo era, la peggior incarnazione di quello che Adorno definisce l’«industria culturale», e l’epifenomeno che ne consegue è la proliferazione di radical chic, mai propositivi, detentori di rendite che si riversano nei tristi rigagnoli di una manifestazione che rischia di non aver più nulla da dire in termini autenticamente artistici.
Lucca Comics almeno è un ritrovo di nerd abbastanza simpatici che si vestono da supereroi, alla Biennale orde di radical chic fanno i cosplayer con l’eccentricità finendo solo per essere delle brutte parodie di esseri umani mettendo in scena la tristezza che solo lo svilimento della creatività può cagionare.
Scrivono a proposito Horkheimer e Adorno:
«Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura. Il denominatore comune cultura contiene già virtualmente la presa di possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno dell’amministrazione».
La Biennale di Venezia è ridotta ad una Gardaland della cultura, che di culturale non ha quasi più nulla, la cultura che diventa sistema non è già più cultura. Negli anni ho visto quanti giovani artisti promettenti giacciano dimenticati con le loro opere in qualche Accademia delle Belle Arti solo perché quello che fanno è o troppo visionario o troppo fuori dal mercato del circuito delle relazioni “giuste” del business culturale.
L’industria culturale arriva a designare, innanzitutto, una fabbrica del consenso che ha liquidato la funzione critica della cultura, soffocandone la capacità di elevare la protesta contro le condizioni dell’esistente. Essa fonda la sua funzione sociale sull’obbedienza, lasciando che le catene del consenso s’intreccino con i desideri e le aspettative dei consumatori. La cultura oggi esalta il narcisismo, l’individualismo, l’accettazione dell’esistente e da modalità creativa di sfuggire dalla consuetudine stesso diventa invece precondizione della sua riconferma.
L’arte di oggi, messa in scena in questi grandi eventi mondani dove il pubblico è più interessato agli aperitivi che alle opere, mette in atto la trasformazione dall’arte come liberazione e critica a riconferma del sistema di valori della società, disinnescando ogni criticità, rendendo l’arte e l’artista gregario della conservazione di ciò che è, glorificandola, non modificandola, eliminando il concetto di progresso.
Ha fatto bene Piero Manzoni a esporre la “merda d’artista”: adesso assistiamo a una nuova categoria il concime culturale, perché la cultura, quella vera, sta al di là di queste manifestazioni ormai grottesche, sta oltre i brindisi, sta nel tormento di Van Gogh, sta nell’Urlo di Munch che cerca ancora oggi di gettare l’umanità oltre l’ovatta del tempo, una voce soffocata che chiunque che abbia a cuore la cultura dovrebbe ascoltare, sostenere e portare avanti, andando a cercare la cultura là dove si nasconde, perché l’arte, quella vera, non si mostra, si nasconde e al massimo si scopre, con fatica, come del resto la libertà.
Vi lascio non con una citazione aulica, ma con questo video sulla Biennale 1978 di Umberto Sordi che vi farà, spero, un po’ capire meglio di quanto io non sia riuscito a esprimere quanto la nostra deriva culturale stia prendendo una piega ridicola, ma anche triste e preoccupante.
Matteo Montagner
[Immagine tratta da Google Immagini]