L’omicidio è, con ogni probabilità, il primo atto mai considerato criminoso e il primo a essere condannato dai codici legislativi. Curiosamente, questo non si è mai riflesso in maniera coerente nella storia delle singole popolazioni, tantomeno dell’umanità in genere. Il codice di Hammurabi – redatto tra il 1800 a. C. e il 1750 a. C. – è uno dei codici legislativi più antichi mai rinvenuti e penalizza l’omicidio in maniera anche piuttosto brutale, con una legge del taglione diventata proverbiale. Nonostante questo, la mesopotamica Babilonia è passata alla storia per essere una città-stato ampiamente progredita, ma altrettanto sanguinaria. Anche il biblico Decalogo, riportato per scritto tra il VI e il V secolo a. C. ma redatto molto prima, pone un lapidario «Non ucciderai» tra i comandamenti; di nuovo, il popolo di Israele si è affermato nella propria regione storica attraverso una serie di genocidi ai danni delle popolazioni ivi insediatesi precedentemente.
Si tratta di una costante storica quasi inevitabile ma corrisponde a un principio semplicissimo: le peggiori atrocità della storia, dalle guerre d’invasione alla tratta degli schiavi fino ai campi di sterminio, sono state commesse da individui dalla coscienza perfettamente pulita. Il principio che vieta l’omicidio “limita” la proibizione alle persone, concetto questo il più delle volte giuridico prima che morale e passibile di revisioni radicali. Uno schiavista del XVII secolo non scarica in mare donne e uomini morti di stenti durante la traversata oceanica, ma “si libera di merce avariata”; un Lagerkommandant non ordina ogni giorno la tortura e il massacro di centinaia di esseri umani, ma “purga la società dai suoi elementi dannosi”. Se le forme estreme del ragionamento sono tragicamente autoevidenti, il meccanismo del limitare in maniera più o meno palese l’accesso alla categoria “persona” è sempre in corso all’interno di un gruppo chiuso, anche e soprattutto quello statale, e una divisione tra un “noi” – individui parte della comunità per cui valgono una serie di norme (ivi incluso il «Non uccidere») – e un “loro” – esseri umani privati di qualsiasi qualifica personale in ragione di massificazione culturale, etnica, religiosa o di altro tipo – è un rischio onnipresente e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.
Ne Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, pubblicato nel 1913, all’alba della Prima Guerra Mondiale, Max Scheler si sofferma lungamente sul problema, peraltro con una carrellata storica di individui cui, in una cultura o in un’altra, è stato giuridicamente negato il titolo di “persona”: donne, bambini, stranieri, schiavi, malati (lebbrosi, malati mentali ecc). La conclusione, nel testo, non può essere che una: l’essere persona è una (la) caratteristica metafisica e inoggettivabile dell’essere umano, non dipende dal suo status sociale, dalle sue convinzioni politiche o religiose, non dipende neanche dalla sua condizione di imputabilità giuridica né dalla sua appartenenza o meno a un popolo, una razza, un genere specifici, dal suo stato di salute o dal suo stadio di sviluppo, dalla sua condizione morale o dalla sua fedina penale.
L’essere persona è connaturato all’essere umano, a tutti gli esseri umani in quanto tali, sempre e per sempre, indipendentemente dalla presenza di una legge che li definisca tali. Di più, la persona in quanto tale non può esistere se non in dimensione comunitario-relazionale, in un rapporto di empatia profonda che la porta ad aprirsi all’altro. Se etimologicamente il termine “persona” rimanda alla maschera teatrale, quindi apparentemente a una finzione nel presentarsi all’altro, racchiude però in sé la funzione specifica della maschera classica: l’amplificare la voce dell’attore, che riecheggia e raggiunge il pubblico. La persona si realizza nella misura in cui ha un altro che le si relazioni, in quel rapporto chiamato da Martin Buber Io-Tu (contrapposto alla relazione strumentale Io-Esso), che vede le due voci davvero per-sonar, risuonarsi attraverso. In caso contrario, si hanno solo in-dividuus, esseri atomistici che si muovono in un mondo nel quale sono identificati solo attraverso la distinzione, l’isolamento, da chiunque altro.
In tempi di incertezza e divisione crescenti, si fa sempre più forte il rischio di perdere la capacità, e prima ancora la volontà, di riconoscere il sacrale diritto di ciascuno ad essere definito persona, nascondendolo dietro migliaia di altre classificazioni tutte artificiali, tutte accidentali. Si ricordi però che perdendo il Tu, la “cassa di risonanza” del nostro sonus, inevitabilmente si perderà anche l’Io, in un trionfo di individualismo in cui, di persone, non resterà neanche l’ombra.
Giacomo Mininni
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