L’inconcludenza è sostanzialmente il fastidio di essere infinito. Io mi rendo conto di essere in-finito, e per questo mi infastidisco. Non concluderò mai nulla perché la mia natura me lo impedisce. Essendo io libero nella mia essenza, non lo sarò mai per davvero.
Se esuliamo dalla libertà civile e legale, la libertà diventa qualcosa di etereo, perché respira. La mia libertà è la libertà di essere nel mondo, che per quanto mi ponga dei limiti dettati dalla biologia e dall’ecosistema, mi permette di fare della mia presenza qualche cosa. E questo è già di per sé fondamentale e fondante per essere libero, perché quel “qualche cosa” non ha dovere di esistere, ma solo diritto – e il diritto è qualcosa che l’universo, come grande sistema naturale vincolato a se stesso, non può conoscere. Dunque la libertà dell’essere è già nella fatalità della sua esistenza.
Questa libertà non può essere però soddisfatta, giacché se lo fosse non si potrebbe più parlare di essere vivente e quella libertà diverrebbe anonimia, cioè universalità, formula compiuta e a-diplomatica. Partecipare alla vita invece significa passare sempre attraverso il particolare, dove scorre il tempo, in virtù di un principio che risiede al di fuori del sé. Ciò che mi completerebbe è ciò che distruggerebbe la condizione in cui sono e mi conosco – l’unica, perché fatale.
Si capisce allora come io, quale essere vivente, sia destinato a non concludere nulla; la conclusione è una giustificazione, che riduce il nome e le parole alla chiarezza di senso, all’impersonalità. Semplicemente si potrebbe dire che una volta raggiunta la cima devo scendere la china, o affrontare chissà cos’altro, ma in un senso più profondo l’inconcludenza rappresenta il consolidamento della mia assurdità e una rivelazione traumatica per la ragione stessa. La ragione scopre, sgranando gli occhi, che quanto ha edificato è relativo a chi edificava, che gli ordini da essa disposti hanno il carattere della convenienza e della convenzione, e che dunque non ha fatto altro che servirsi dell’immaginazione fino ad immedesimarsi totalmente con essa. Sotto la prospettiva inconcludente, la ragione scopre di inventare mondi.
L’universo e il mio rapporto con esso inizia a disilludersi. Si manifesta invece una circolazione indifferente che coinvolge ogni fenomeno senza privilegiarne nessuno. L’inconcludenza comincia così, nella delusione di essere se stessi, quindi nella stizza di non poter comprendere nulla, che infine può sfociare nella pura angoscia. L’inconcludenza non scompare nemmeno quando mi concentro su un contesto specifico che richiede determinate competenze: retrospettivamente mi sarò ingannato per potermi concentrare, avrò cioè ignorato le mie ridondanze per esser libero di immaginare, e quindi avrò affermato la stessa inconcludenza da cui volevo fuggire. Prima del lavoro c’è l’immaginarsi che quel lavoro abbia valore per un altro scopo immaginato. E se invece mi limito a cercare di soddisfare la mia fame, cioè i miei vincoli biologici, senza perdermi nella riflessione infinita, mi sarò totalmente calato nella cosmologia inconcludente, perché sarò divenuto creatura che esiste senza fine assorbita nel mare magno della materia che semplicemente si trasforma e fa.
La ragione del mondo non esiste. Il suo unico principio è l’elevatissima improbabilità di essere così com’è. Ma questa stessa inconcludenza, essendo appunto indefinibile e leggerissima, non può soffermarsi a lungo; deve presto ripartire. Se io sono inconcludente, sono subito rimesso al mondo. Se io sono inconcludente, l’esistenza che interpreto è ontologicamente innocente. La metafisica è la dimensione cosmica che giustifica tutto senza impedire alcunché. All’orizzonte di un lungo inverno, sembra scorgersi un fievole bagliore: la vita può ritrovare la sua primavera. Se non sarà mai libera, lo sarà sempre, forse anche dopo l’ultimo dei suoi giorni. La sua realtà è quella immaginativa, che contenta di rinunciare è contenta di accogliere. La ragione, si dice, con tutte le sue impalcature, è il vero gioco sociale. Esagerando ed estendendosi dove non dovrebbe, l’inconcludenza diventa Agape, e allora diventa anche una profonda lezione politica.
Non si deve pensare che l’inconcludenza sia un incitamento alla sregolatezza. Piuttosto è un incitamento a comprendere quella sregolatezza, a comprenderne le ragioni (!) per poterla avvicinare. La rinuncia precede l’ascolto, e ciò a cui rinuncio è la testardaggine dell’Io, che coincide col dovere di esistere, con la sua imposizione che cerca un Uomo universale. Ma l’individuo in realtà è Caos. Io non devo esistere, io posso esistere, ed è a partire da questa consapevolezza che aspiro alla pace. Per altro, nel potere di essere, posso poi anche trovare il mio dovere, subordinato una volta per tutte. Un mondo inconcludente non è allora un inferno di pigrizia, ma un mondo saggissimo in cui l’individuo è acquietato e il bisognoso è ascoltato in virtù del suo disagio. Esagerando ed estendendosi dove non dovrebbe, l’inconcludenza diventa Agape1, e allora diventa anche una profonda lezione politica.
Utopie, certo, perché l’inconcludenza è anche questo, il progettare mondi che non esistono, ma che dimostrano quanto sia reale il ritorno alla pratica nel mondo nonostante abbia scoperto l’inconcludenza di ogni cosa. L’inconcludenza non mi vuole inerte; l’inconcludenza è una sfida, che sprona le coscienze avvelenate a cambiare direzione, cioè a perderle tutte per assumere la propria. Non sarò mai rinchiuso in me, perché ricorderò l’inconcludenza e allora mi ammorbidirò. L’inconcludenza è la categoria della gioia. Sapendo di non poter più conoscere, sarò comunque sempre consapevole.
Leonardo Albano
NOTE
1. È l’amore conviviale, capace di avvicinare ogni essere umano allo stesso focolare, annunciato dal cristianesimo che fu in vista della venuta celeste.
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