Home » Rivista digitale » Filosofia pratica » Persona » A tu per tu con la Schadenfreude, la gioia per le disgrazie altrui (I parte)

A tu per tu con la Schadenfreude, la gioia per le disgrazie altrui (I parte)

Il fremito di piacere per il fallo di un collega che non ci degna della sua attenzione. La soddisfazione per l’errore di un nostro superiore magari più promettente di noi. La gioia per i deragliamenti amorosi dei nostri ex.
I tedeschi, ottimizzando spazio e tempo, hanno confinato tale emozione a una singola parola: Schadenfreude. Un termine composto da Schaden, danno, e Freude, gioia. Significa provare piacere della sfortuna altrui. Un senso di appagamento che, negli ultimi anni, è stato al centro di numerosi studi di carattere socio-psicologico.
Si tratta di un’emozione che quasi mai riconduciamo a noi ma che, a ben guardare, si aggira sempre più prepotente nella nostra quotidianità.

Secondo Nietzsche era la «vendetta dell’impotente» (M. Ire, Nietzsche’s Schadenfreude, 2013). Schopenhauer, se possibile, ci andava ancora più pesante definendola «l’indizio più infallibile di un cuore profondamente cattivo»; di più, un cuore che andava interdetto dalla società (T.W. Smith, Schadenfreude, 2019).

Spesso la identifichiamo con la giustizia divina, la vendetta del karma. Con il cosmo che, finalmente consapevole di sé e del nostro infinito, puro e prorompente splendore, sembra punire chi “se lo merita”, cioè gli altri, ovviamente. Magari chi, fino a quel momento, aveva portato avanti una condotta invidiabile e che poi, come è naturale e possibile, è caduto in difetto.

La Schadenfreude è il sollievo di non essere chi incappa in qualche pesante figuraccia. La gioia di vedere che chi ci sta di fronte non è perfetto. La gratitudine di trovarsi in disparte, lontani da tanta imperfezione, giacendo in un stato di eterna passività. È quel lampo di soddisfazione negli occhi che le parole cercano di contraddire. D’altra parte, «La sfortuna degli altri è dolce come il miele», suggerisce un antico proverbio giapponese.
Pare, però, che specialmente le persone con bassa autostima siano più tendenti alla Schadenfreude rispetto a quelle con una buona auto-reputazione. Di più, mentre le prime possono sguazzare in questa gioia in modo inconsueto, le seconde potrebbero, prima o poi, vergognarsene e così, finalmente, volerla spegnere.

La parola è stata inventata dallo psicologo olandese Wilco van Dijk ma già Aristotele ne faceva uso affidandosi al termine greco epikairekakia (ἐπιχαιρεκακία) da epikàiro (ἐπιχαίρω) “rallegrarsi” e kakìa (κακία) “cattiveria” o “malevolenza”: il significato era sempre quello.
Lo psicologo, nel corso degli anni, si è impegnato a studiare questo sentimento come sensazione di disagio e di dolore provocato dalla delusione che l’altro stia meglio di noi, incapaci di condividere il suo benessere.
Molto dipende dal confronto sociale. Cioè dalla teoria per cui le persone non si auto-valutano tramite le loro abilità bensì tramite, appunto, il confronto con gli altri. E il confronto influisce profondamente su alcuni dei più importanti bisogni di una persona, come l’autostima, l’autocontrollo, la realizzazione e l’accettazione, come suggerisce la teoria della piramide dei bisogni che lo psicologo Abraham Maslow propose nel 1954.

La Schadenfreude può imporsi in ognuno di noi, con diverse intensità, dando ancor più forza alla competizione che domina la società di oggi. Questa teoria è rafforzata dagli studi del professor John Tooby, psicologo evoluzionista dell’Università della California a Santa Barbara. A suo dire, da sempre la mente dell’uomo ha manifestato il bisogno di competere e di affermarsi.

Secondo la psicoterapeuta Grazia Aloi1 sarebbe assolutamente imprescindibile una correlazione tra la Schadenfreude e l’aticofilia – dal greco atuchès (ἄτυχής) “sfortunato” e philía (φιλία) “amore, passione” – che accentua la possibilità di provare piacere per le disgrazie altrui a causa della scarsissima autostima dello spettatore compiaciuto.

«Si tratta di una considerazione di scarsissimo valore di Sé che si riflette nella consolazione (molto spesso errata) che anche il Sé degli altri sia scarso e non degno. Chi gode della sofferenza altrui è innanzitutto una persona insoddisfatta di sé e incapace di guardarsi dentro».

In supporto alla dottoressa Aloi sono arrivate le considerazioni del dottor Hidehiko Takahashi. Proprio lui, grazie ad esperimenti condotti sfruttando la risonanza magnetica funzionale, è riuscito a scoprire che quando si gioisce delle disgrazie altrui viene rilasciata dopamina, che attiva lo strato del «circuito della ricompensa» (H. Takahashi, When your gain is my pain and your pain is my gain).

Il dibattito rimane acceso ma è innegabile che – se è vero che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo riservato un posto comodo in prima fila per assistere ad un evento tragicomico capitato a un nostro “rivale” – è altrettanto vero che c’è chi in questa emozione si crogiola con grande impegno, spesso. Tra l’altro, raggiungendo risultati olimpici.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. La citazione e le informazioni riferite alla psicologa G. Aloi sono ricavate dal suo blog.

[Photo credit Ashley Juris via Unsplash]

copertina-fb

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!