Lo immagino chino sul suo secretaire, al crepuscolo, con una lampada ad olio come unica fonte di luce, potenziata da una sorta di fuoco fatuo appena fuori dalla finestra della sua stanza, a Copenaghen. Kierkegaard sta scrivendo per noi, pensando però al proprio trascorso. Pensa alle ombre distruttrici e oscure di cui la possibilità della vita, anche la sua, si circonda.
«Penso alla mia prima giovinezza, quando, senza ben afferrare il significato della scelta nella vita, con infantile confidenza ascoltavo i discorsi dei più anziani; e l’istante della scelta era per me solenne e venerabile, benché nella scelta seguissi allora solo le istruzioni degli altri. Penso a quegli istanti nella mia vita futura, in cui mi trovai al bivio, in cui l’animo si maturò nell’ora della decisione»1.
Scegliere non è garanzia di successo per ciò che la possibilità prospetta: essa infatti può sempre dissolversi, evanescente come la nebbia tra i fossi o intorno alle colline, oppure non realizzarsi. E neppure la sua realizzazione è sicura e definitiva, perché nuove possibilità indecifrabili possono scorgersi all’orizzonte chimerico.
L’esistenza così galleggia in un oceano dalle profondità inesplorate: non è infatti riscontrabile una vita che possa farsi gioco del lungo viaggio, che attenderà ognuno di noi, né stato di benessere immune da rischio. Non esiste virtù o buona volontà che non sia soggetta alla possibilità della perdita, della mancanza o, seconda una lettura religiosa, del peccato.
L’immensità indeterminata delle future possibilità che vive in ogni sentiero di vita, anche in quello apparentemente più rettilineo, privo di pendenze, fa sì che quest’ultimo sia reso impervio dalle innumerevoli possibilità sfavorevoli che ci palesano la nostra impotenza, la nostra mortalità, il nostro limen. La possibilità ha così (anche) il potere di disintegrare ogni aspettativa e disattivare ogni capacità umana.
Sorge così l’angoscia, sentimento della possibilità: quel sentimento che si cela nell’incertezza e instabilità del futuro.
«[…] colui che, mediante l’angoscia, diventa colpevole è certo innocente; infatti non era lui, ma l’angoscia, una potenza estranea che lo prese; una potenza ch’egli non amava, ma di cui si angosciava […] eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell’angoscia ch’egli, pur temendola, amava»2.
Parallelamente si pone anche la disperazione, quella “malattia mortale” di cui Kierkegaard tratta nel libro omonimo. Ma se l’angoscia, da una parte, trova la sua più “comoda” collocazione soprattutto nei rapporti tra il singolo e il mondo, la disperazione, dall’altra, ci spaesa in tutta la sua imponenza, in quella specifica relazione che il singolo istituisce e tesse con se stesso, con l’io.
L’angoscia è determinata da quella coscienza e consapevolezza per cui tutto è possibile, e quindi è caratterizzata dall’ignoranza di ciò che accadrà. La disperazione, invece, è motivata dalla responsabile e lacerante constatazione che la possibilità dell’io si traduce necessariamente in un’impossibilità. Infatti l’io è posto di fronte ad un’alternativa, bivio della vita: o volere o non volere se stesso.
Se l’io sceglie di volere se stesso, sceglie cioè di realizzarsi fino in fondo nella sua più intima veste, viene necessariamente e brutalmente posto dinnanzi alla propria limitatezza e all’impossibilità di dare voce al proprio volere. Viceversa, se, dicendo «no!» alla propria esistenza e, rifiutando se stesso, cerca di essere altro da sé, si imbatte in un’impossibilità forse ancora maggiore: il rifiuto nichilistico di se stesso. In ogni caso, l’io viene costretto, a forza, dinnanzi al fallimento, condannato ad una malattia mortale, cioè a “vivere la morte” di se stesso, la disgregazione e scissione di ogni sua molecola.
«Vi sono circostanze in cui sarebbe ridicolo e quasi pazzesco voler porre un aut-aut; ma vi sono anche persone la cui anima è troppo dissoluta per cogliere il significato di questo dilemma, alla cui personalità manca l’energia per poter dire con pathos: o questo, o quello. […] Queste parole […] su di me han l’effetto di una formula di scongiuro, e l’animo mio sprofonda nella serietà, restandone a volte quasi sconvolto»3.
Ed è proprio in questa consapevole e impegnativa serietà che si libra, immensa nelle sue potenzialità distruttrici e creative, la fonte della nostra più grande forza: la possibilità di scelta, nell’edificare se stessi, verso l’altro, nella consapevolezza della propria,umile e modesta, finitudine.
Riccardo Liguori
NOTE
1. S. Kierkegaard, Aut-Aut, a cura di R. Cantoni, Milano, Oscar Saggi Mondadori, 1981, p. 33.
2. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Milano, SE, 2007, pag. 44.
3. S. Kierkegaard, Aut-Aut cit., p. 33.
[Credit Pablo García Saldaña]