Caro lettore, tu un giorno morirai.
Qualcuno potrebbe già aver smesso di leggere quest’articolo, ma queste mie parole vanno a chi le vuole ascoltare, a chi non si impressiona, o a chi lo fa ma non rinuncia a conoscere le cose, ad indagarle oltre le apparenze.
Chi mi sta ancora leggendo, magari davanti alla prima colazione o intento alle prime letture della giornata proposte dalla bacheca Facebook, è il lettore giusto, quello che in un certo senso è già avanti agli altri, ha già compiuto il primo passo (o l’ultimo).
Quanto è difficile accettare la nostra finitezza? Raggiungere la consapevolezza di non esserci più fisicamente in questo mondo, di abbandonarlo per come lo conosciamo e percepiamo ora? Interrogativo che non ci coinvolge se non a ridosso del nostro ultimo momento, nel fine vita. Non solo, lo stesso Albert Camus ne Il mito di Sisifo poneva tale interrogativo nell’arco dell’intera esistenza, convivendo con la possibilità della fine volontaria della propria vita, ovverosia il suicidio, eleggendolo addirittura ad unica questione di una certa validità filosofica.
Perché continuare a vivere? Perché l’essere piuttosto che il nulla? Abbiamo davvero una vaga percezione o idea di che cosa sia questo nulla o la fine del mortale?
Spostandoci dalla filosofia e passando al campo psicologico, nel caso del suicidio v’è una valenza non indifferente, specie in relazione alla fase adolescenziale. Quel che risulta, solitamente, è una totale inconsapevolezza della morte, della propria fine in questo mondo, il tutto legato all’atto, all’esecuzione isolata dalla ragione. L’azione suicida, come fuga dal mondo da una vita assolutamente impossibile, richiede una forza e una determinazione potenti, ben lontani dal gesto esibizionista, egocentrico ma soprattutto curioso delle reazioni seguenti. Il dato di inconsapevolezza sta tutto in quest’ultima proposizione, nel fatto di voler sapere che cosa succederà dopo la nostra morte, chi ne soffrirà, chi rimarrà colpito e sorpreso; con l’unica differenza che il soggetto non sarà lì a vedere tutto ciò.
Il mio memento mori iniziale è diretto anche e soprattutto ai giudici di atti compiuti da parte di adolescenti.
L’inconsapevolezza, secondo due direzioni diventa reciproca, mostrando l’analfabetismo emotivo dei grandi giudizi di valore del nostro tempo, quelli virtuali e banali. Chi diventa adulto, spesso, ricorda nostalgicamente i bei tempi passati, la scuola e gli amici; dimentica tuttavia la totalità delle sensazioni e delle emozioni provate. La rimozione è facile, è un meccanismo consueto e porta con sé una buona dose di inconsapevolezza da offrire al popolo.
In fondo, tutti siamo più o meno inconsapevoli di fronte a quello che Hegel nella Fenomenologia dello spirito definiva il signore assoluto, ovverosia la morte da cui ne deriva una profonda paura, un’angoscia nel porsi davanti alla totalità della propria esistenza. Lo stesso Seneca scrive:
«Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per
imparare a morire»1.
In tal modo ci riscopriamo tutti nella medesima situazione, tutti abbiamo intrapreso lo stesso cammino nel
quale dare un senso alla nostra vita per poi riuscire ad abbandonarla.
All’inizio dell’articolo parlavo di accettazione, passaggio fondamentale quanto difficile da raggiungere. Elisabeth Kübler-Ross lo pone, appunto, come ultimo stadio affrontato da un malato terminale nella convivenza con la sua malattia e con l’imminente morte. La psichiatra svizzera, ne La morte e il morire, traccia un preciso disegno della processualità del malato terminale suddividendolo in cinque stadi: rifiuto, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione2.
Nella sua esperienza negli ospedali, racchiusa nell’opera sopraccitata, si possono leggere le varie interviste rivolte ai suoi pazienti, all’interno delle quali si possono cogliere le profonde sfumature emotive. Il rifiuto iniziale, il non riuscire a credere ad una tale notizia che implica inevitabilmente un pensiero che non occupa uno spazio così ingombrante nel quotidiano, che non ci tormenta. La rabbia, appena ci spostiamo dall’atteggiamento di chiusura, ci pervade e ci rende collerici nei confronti delle persone che ci stanno accanto, con il mondo stesso perché lo odiamo nella sua totalità. La negoziazione richiama a quella speranza che non viene mai a mancare in tutti i passaggi e ci fa pensare a qualche via di fuga, ai compromessi vari. La depressione non può che essere conseguente alla, seppur incompleta, realizzazione dell’evento. L’accettazione si fa ultimo traghettatore, una condizione che se raggiunta effettivamente riesce a farci congedare con la pace totale, la quiete e l’armonia con quel che è stato, che è e che sia avvia alla sua naturale conclusione.
La forza, la potenza e la complessità di questo percorso sono nella non-immediatezza, nell’intreccio necessario con la temporalità che sa essere tiranna. La pazienza dovrà prendere il posto dell’impulsività, l’attesa quello della pretesa che vuole tutto subito, nel qui ed ora. Altri non è che un’illusione e forse questo è l’insegnamento più prezioso che ci dà Kübler-Ross, ovverosia il riuscire a porci nei confronti della vita stessa, prima che della morte, con un atteggiamento capace di riflettere questo equilibrio. Essere in grado di «guardare in faccia il negativo»3, direbbe ancora una volta Hegel, e che superi le contraddizioni, le necessarie contraddizioni che ci compongono e che ci rendono così dannatamente e piacevolmente imperfetti, finiti di fronte all’infinito.
Alvise Gasparini
NOTE
1. L.A. Seneca, De brevitate vitae, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 1993, p. 57
2. E. Kubler-Ross, La morte e il morire. Assisi: Cittadella, 2015.
3. G. Hegel, Fenomenologia dello spirito. Bompiani 2000
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