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Assistiamo a una rivoluzione silenziosa, ma non poco significativa perché cambiano il paesaggio delle nostre Città e il nostro modo di vivere. Una rivoluzione che pone molti interrogativi: come mai, in un momento di crisi come questo, mentre i giornali ci annunciano che si stanno contraendo anche i consumi alimentari, tante persone sono disposte a sborsare soldi per andare a mangiare fuori? Certo, si preferiscono locali a basso costo, dove comunque si spende di più che a casa. E come mai i giovani, in gran parte disoccupati, che non guadagnano e vivono a carico delle famiglie oltre i 30 anni, si possono permettere tali spese? La risposta non è ovviamente semplice. Probabilmente la tendenza a “vivere fuori” ha a che fare con la crisi della famiglia e con l’aumento dei single, che escono per sfuggire alla solitudine. Ma dipende anche dal fatto che molte ragazze e ragazzi oggi non lavorano e quindi la sera non devono rincasare presto, sono liberi di andare in giro e fare tardi. La nostra società ha privato del futuro le nuove generazioni che, prigioniere di un presente che non passa, si ritrovano costrette a una perenne adolescenza forzata. E non è un caso che il modello dei locali da aperitivo si stia estendendo, con i loro cibi veloci ed economici, e siano frequentati soprattutto da adulti. E’ difficile che chi ha figli piccoli esca a mangiare, perché in fondo l’esperienza si presenta faticosa, e i bambini sono più facili da gestire a casa, con i loro giochi, i loro cibi usuali e, soprattutto, la televisione.

L’abitudine a “mangiare e vivere fuori” è segno di una società senza bambini, quindi con poco interesse per una vita familiare, e rivela una radicata abitudine al consumo, che probabilmente in passato si realizzava attraverso spese impegnative: dai ristoranti ai viaggi, dalle moto ai vestiti firmati. Ora che si compra più volentieri all’outlet e si viaggia poco frequentare luoghi di aggregazione come bar e chioschi sembra rimasto l’unico sfogo dell’abitudine al consumo.

Certo anche questi nuovi esercizi creano posti di lavoro, probabilmente molto poco pagati, e sono un modo come un altro per far girare l’economia. Se però ci pensiamo bene essi evidenziano la scarsa inventiva della nostra società che non produce niente di nuovo, ma si limita ad allargare un po’ la possibilità di spesa a basso livello; una spesa che contrae il risparmio, il quale in pochi anni è passato dall’essere una virtù a rappresentare uno dei peccati capitali dei nostri tempi, la fine della progettazione futura, degli investimenti produttivi. In altre parole questi “nuovi” locali che invadono i nostri centri abitati sembrano solo segnalare che abbiamo un popolo che vive “a basso cabotaggio” e cerca vie facili per dimenticare le difficoltà del presente.

A questo punto possiamo chiederci: come mai gli economisti si sono impadroniti di questa forma linguistica che sembrerebbe essere più competenza di filosofi, psicologi e pedagogisti? Gli economisti hanno ben capito quello che altri non avevano messo sufficientemente in rilievo, vale a dire che esiste una stretta correlazione tra benessere collettivo e Capitale Umano, che tutti gli investimenti che una comunità fa per migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini si traducono col tempo in un aumento del reddito pro-capite. Insomma, il Capitale Umano viene considerato un investimento in un bene che produce rendimento.Molteplici studi a livello internazionale ci dicono che a un anno di istruzione in più dei lavoratori corrisponde una crescita del prodotto pro capite del 5%; e ancora, che le persone in possesso di una laurea specialistica guadagnano almeno il 50% in più di coloro che hanno soltanto un diploma. Ma non basta. Il Capitale Umano riduce anche la propensione a delinquere e produce effetti positivi sulla salute.

Perché un investimento sia produttivo è necessario, però, agire prima che i giochi siano fatti puntando decisamente sui processi educativi ai quali l’individuo viene sottoposto, quindi su scuole efficienti, docenti preparati e aggiornati, buon livello culturale familiare, supporti e iniziative per i giovani, e molto altro. Tutte cose che gli studi filosofici hanno più volte sottolineato e che sembrano sfuggire troppo spesso all’ambito dell’Economia e di chi se ne fa portavoce. Basti pensare alle numerose ricerche sull’incidenza positiva che la frequenza al nido ha sui bambini piccoli ad esempio per capire come “Il Capitale Umano” associato tendenzialmente a persone adulte sia invece strettamente legato a tutte le fasi dello sviluppo della persona, in quella sede i più piccoli non si limitano a stare fisicamente in un luogo diverso, ma esperiscono soprattutto a interagire con altri che non siano i familiari, vivendo ruoli e esperienze stimolanti. Sembra addirittura che il futuro dei cittadini dipenda, almeno in parte, dalle opportunità di apprendimento di cui hanno goduto nei primissimi anni di vita.

Nonostante a livello economico venga troppo spesso inflazionato il termine Capitale Umano è anche vero che possiamo facilmente accorgerci di come le nuove generazioni crescano spesso in una situazione di povertà educativa dove i beni materiali proliferano, ma mancano investimenti sugli aspetti dei valori che andranno a costituire la parte più intima della persona.

La Filosofia è tacciata di esser qualcosa di distante dalla vita pratica, qualcosa che manca di concretezza e che rende chi ne è interessato del tutto incapace di confrontarsi con le problematiche che sorgono dalla vita quotidiana, troppo impegnati a guardare il cielo e i massimi sistemi questi esseri inadatti alla vita si troverebbero in balia delle circostanze, persi in fantomatici mondi e nelle loro elucubrazioni mentali.

Ma le cose stanno davvero così?

Nella consulenza aziendale si stanno facendo sempre più strada delle figure ibride a cavallo tra la Filosofia, le Scienze dell’Uomo e l’Economia, che è afferente molto più all’ambito delle materie umanistiche che a quelle prettamente scientifiche in senso stretto. Stuoli di Socrate si aggirano per le imprese facendo quesiti, ponendo domande e aiutando gli imprenditori a partorire maieuticamente nuove idee per migliorare il proprio business.

Mentre in molti si nutrono di stereotipi e additano la Filosofia come qualcosa di avulso dalla realtà ecco che stuoli di nuovi professionisti trovano oggi impiego nel settore della Analisi di Business e della Consulenza Aziendale.

Ma come mai tutto questo? L’analisi non può essere infatti ricondotta unicamente al modello delle scienze della natura cioè alla creazione di un modello sulla base di parametri quantitativi tratti dall’indagine di un campo omogeneo di fenomeni dal quale trarre delle leggi di funzionamento. Sarà quindi necessario prendere a modello le scienze umane.

Il caso in oggetto, l’ “Azienda”, riguarda prima di tutto la storia di persone, delle biografie, da analizzare in quanto organizzazione umana che interagisce con un sostrato materiale, analizzare un’impresa significa rifarsi a multilivelli narrativi dove nella metanarrazione biografica si innesteranno altri livelli narrativi che il ricercatore non potrà certo ignorare, salvo restituire un modello che non coglie l’oggetto stesso che si vorrebbe esaminare.

In queste indagini si tengono quindi conto di due indicazioni metodologiche liberamente tratte da Jean-Paul Sartre:

La sindrome del cameriere: è celebre l’episodio che racconta di come Sartre mentre risiedeva in una stanza di albergo si ritrovò una persona in camera e gli chiese “E chi è lei?” questi gli rispose “Sono il cameriere”, Jean-Paul non convinto della risposta ribadì “No, lei non è il cameriere, lei fa il cameriere, ma chi è lei?”. Gli analisti e gli stessi intervistati tendono a concentrare l’attenzione solo sulle funzioni esplicate da un soggetto, ma è ragionevole credere che vi sia un disegno di senso più ampio che incornicia l’agire, bisogna quindi avere un approccio olistico che valuti l’integralità della persona.

“L’inferno sono gli altri”: è l’interpretazione dell’Io sartriana; esso non si presenta come una sostanza chiusa in se stessa, al contrario essa è senza alcun dubbio una struttura relazionale che per sua stessa essenza è aperta al mondo esterno e all’altro. Noi, in tal senso, siamo nel mondo e viviamo ognuno diversamente il rapporto con la realtà, vale a dire con quello che comunemente chiamiamo “mondo esterno”, l’altro da noi. La relazione corre il rischio di essere falsata se chi indaga al posto di mettersi in ascolto proietta le proprie categorie sul caso di studio.

L’analista deve comportarsi in azienda come una sorta di Socrate, avere cioè un approccio maieutico che permetta all’azienda di far emergere la sua natura e non viceversa di proiettare le proprie idee o i propri preconcetti su di essa, un buon metodo da tenere presente è quello della Tabula Rasa o dell’epoché ampiamente noto nell’ambito dell’epistemologia che consta nel tentare quanto più possibile di “sospendere il giudizio” per lasciarsi imprimere come se si fosse una sorta di pellicola da ciò che si sta osservando. Si noterà infatti che nella stesura di questo report tale metodologia emerge anche nella costruzione dello stesso, si partirà infatti dallo studio di persone e cose per poi andarne a studiare le loro interazioni fino a restituire all’interno di una dimensione sistemica l’anatomia nell’azienda, uso deliberatamente il termine anatomia perché ogni narrazione su una cosa come ricorda Hegel implica necessariamente dissezionarla, astrarla e quindi sottrarla alla sua dimensione vitale. Le imprese sono degli organismi complessi e il loro studio implica necessariamente studiarne non solo le parti, ma soprattutto le interazioni tra esse.

Una scienza che voglia dirsi tale riflette criticamente sui suoi fondamenti, in tal senso ogni scienza che voglia porsi come tale presenta sempre una metascienza finalizzata a definirne i criteri di validità. I presupposti su cui si fonda l’economia moderna vengono mutuati acriticamente dalla Filosofia Morale di Adam Smith, la presenza di presupposti non esplicitati chiaramente mettono in crisi l’intero impianto teorico, siamo infatti di fronte a una scienza non dimostrata e non falsificata. Nell’economia si postula e presuppone un campo omogeneo dei fenomeni senza un vaglio critico.

Qualcosa si è insinuato nelle nostre vite, qualcosa di astratto che non riusciamo ancora ad afferrare pienamente è strisciato nella nostra quotidianità senza che ce ne accorgessimo, ad annunciarne la venuta cartelloni pubblicitari e messaggi mediatici: i brand. “Nel nostro negozio le migliori firme” annunciano i cartelloni, mentre la pubblicità di un negozio di abbigliamento promette “sconti su tutte le firme”, e avanti così…Ne siamo così invasi che ormai fanno parte del nostro mondo quotidiano: “Vado in quel negozio perché hanno le firme che mi interessano”, solo per fare un esempio. Questi brand, o firme, come la mitiche figure dei consumatori e delle consumatrici sanno bene, sono i prodotti firmati da stilisti famosi o di grossi gruppi aziendali, meglio se si il marchio si vede il più possibile.

I brand ancor più dei prodotti continuano a essere oggetto del desiderio, di attrazione, anche in questo periodo di crisi, anche se ridotti ormai a resti polverosi di una moda superata, scartati sia dagli acquirenti più altolocati, quei pochi che pagano a prezzo pieno, sia da quelli che sono pronti ad acquistare in saldo. Ma ci sono persone, evidentemente, che comprano questi oggetti firmati non perché li trovano belli o comodi, o ne hanno bisogno, ma appunto perché sono firmati da quello stilista o sono stati prodotti da quella determinata compagnia, i cui nomi evocano mondi di fascino e celebrità. E’ come sentirsi un po’ un divo o una diva, una celebre indossatrice, una principessa, un attore famoso, perché, come loro, ti sei potuto o potuta permettere “una firma”. Insomma è come comprare una favola, una fuga dalla propria vita quotidiana molto più dura soprattutto in questi tempi così avari di speranza.

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