«Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male»1.
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1964) è uno dei testi più noti di Hannah Arendt (1906-1975), filosofa ebrea-tedesca. Arendt era stata inviata in Israele dal New Yorker per assistere al processo a Otto Adolf Eichmann, gerarca nazista e tra i maggiori responsabili della messa in atto della “Soluzione Finale”, catturato – seppur senza il consenso del governo argentino – in un quartiere suburbano di Buenos Aires l’11 maggio 1960 e chiamato a rispondere davanti al tribunale distrettuale di Gerusalemme a 15 imputazioni, avendo commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra durante il secondo conflitto mondiale.
Quello del male è un tema che Arendt tratta a più riprese, e che viene sistematicamente indagato già nel suo primo importante lavoro Le origini del totalitarismo (1951). In questa sede, in particolare nel riferirsi alla snaturazione degli esseri umani che avviene in un totalitarismo, emerge il concetto di male radicale, inteso come male assoluto in grado di sottrarsi sia al perdono, sia alla punizione; male inaccettabile che riduce gli uomini a esseri superflui perché colpisce le radici – quali il pensiero e l’agire spontaneamente – della nostra esistenza, trasformando gli esseri viventi a un fascio di azioni programmabili.
Il processo a Eichmann condusse Arendt a riformulare le proprie argomentazioni: se, nel testo sopra citato, ad affiorare è l’idea che il male peggiore sia appunto quello radicale, in La banalità del male la studiosa si spinge oltre, dichiarando che il male non è mai radicale, è soltanto estremo, esso non possiede una profondità ma si diffonde in superficie, come un fungo, invadendo il mondo intero. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di attingere alla profondità, di pervenire alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustato perché non trova niente. È qui la sua “banalità”2.
Nel partecipare a tutte le 120 sedute del processo, Arendt delineò la figura di Eichmann in modo piuttosto esaustivo, evidenziando gli aspetti comportamentali e fisici più rilevanti – nel senso di utili a corroborare la propria teoria. Ciò che emerse è che uno dei maggiori fautori della Shoah, responsabile operativo delle deportazioni di migliaia di ebrei era in realtà un uomo normalissimo e la sua mostruosità consisteva proprio nel non essere mostruoso. Eichmann era una persona mediocre, che nella sua mediocrità non aveva fatto altro che eseguire gli ordini che gli erano stati imposti, si esprimeva con frasi fatte ma era allo stesso tempo caratterizzato da una particolare incoerenza nel parlare, durante il giorno indirizzava i treni verso i vari lager e la sera rincasava e accarezzava i propri figli. Egli, fino all’istante precedente alla propria impiccagione, si sentì deresponsabilizzato, un anonimo burocrate che aveva fatto il proprio lavoro. È in questo suo essere sempre presente a se stesso che il funzionario nazista si distingue, per esempio, da Claude Eatherlay, il pilota e meteorologo statunitense che diede il via libera allo sgancio della bomba atomica che distrusse Hiroshima, il quale, assalito da una depressione senza scampo tentò più volte il suicidio perché comprese di essersi macchiato di uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità.
Ciò che veramente destabilizzò Eichmann fu invece la fine della guerra: «l’8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania, fu per lui un tragico giorno soprattutto perché da quel momento non avrebbe più potuto essere membro di questo o di quell’organismo […] non avrebbe più ricevuto direttive da nessuno […] in breve, gli aspettava una vita che non aveva mai provato»3. Eichmann era diventato una non-persona, egli non era più in grado di agire spontaneamente e individualmente, non possedeva gli attributi del pensiero e del ricordo. Per gli esseri umani, infatti, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquistare stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade. «Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti»4. Solo il bene è profondo e può essere radicale; il male è quindi banale.
L’invito che Arendt ci fa è quello di prestare attenzione a quando aderiamo o non aderiamo a un’indicazione solo perché così ci è stato riferito, a quando decidiamo di obbedire senza porci alcuna domanda, a quando siamo talmente asserviti a quella che per noi è la normalità da non essere più in grado di individuare le situazioni nelle quali è venuto meno il tempo della riflessione e quello della scelta: in breve, “la banalità del male” ci ricorda la necessità del pensiero.
Chiara Frezza
NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 201627, p. 259.
2. Cfr. H. Arendt, G. Scholem, Due lettere sulla banalità del male, Nottetempo, Milano, 2007.
3. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., p 40.
4. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2010, p. 81.