Sono stata piacevolmente colpita dal modo in cui Eugenio Borgna, noto psichiatra italiano, è riuscito a definire la mancanza. Nell’intervista di domenica 25 maggio che il quotidiano La Repubblica ci propone, egli definisce la mancanza come qualcosa che ci accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra parentesi.
Ciò che ad un certo punto della sua vita gli permise di comprendere che avrebbe voluto dedicare i suoi studi e le sue attenzioni ai pazienti psichiatrici, fu la volontà di entrare in un mondo intriso di dolore e sofferenza. Lo psichiatra, infatti, abbandona il campo biologico e meccanicistico per attraversare con i pazienti quelle fratture che irrimediabilmente hanno segnato le loro esistenze e dalle quali non potranno mai liberarsi.
Borgna ebbe il coraggio di addentrarsi in una disciplina che, negli anni Sessanta, si limitava a ritenere emarginati gli ammalati da patologie psichiatriche, abbandonandoli a se stessi e rinchiudendoli in ospedali dall’atmosfera quasi irreale.
Quando entrai vidi all’esterno degli enormi giardini.Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell’ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori.
Sembravano le marionette di un teatro dell’assurdo, ma era niente rispetto alla situazione che trovai all’interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c’erano esseri umani cui era stata tolta la dignità di vivere.
Tuttavia, è questo che, purtroppo, ancora oggi, accade. La diversità viene rifiutata e combattuta, piuttosto che ascoltata, salvata, protetta e aiutata. La diversità incute timore e il mondo vitale che essa contiene resta nel silenzio, privato di libera espressione. O meglio, l’unico modo per esprimere se stessi e le proprie fragilità risulta essere quello esteriore, corporeo, che spesso ed erroneamente viene fatto corrispondere all’anomalia, alla follia priva di motivazione.
Alla base della malattia infatti c’è sempre una spiegazione esistenziale, non clinica oppure biologica. La patologia è la conseguenza di un ferita profonda, che continuamente emerge e si manifesta per mezzo del sintomo psichiatrico. Per questo motivo, lo psichiatra veste il ruolo dell’ascoltatore, dello spettatore lontano che costruisce un percorso verso la guarigione.
La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto solitario. L’altra faccia del modo in cui la scienza dell’anima si è lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest’ombra.
L’ombra di cui Eugenio Borgna parla è quella dell’evento, del trauma vissuto di un passato che, di fatto, non passa mai. Il passato si ripresenta nelle sue molteplici forme attraverso il presente.
Così, quel vuoto che ci portiamo dentro e che ci segna fin dall’infanzia, riesce a trovare altre forme di espressione: quella del dolore e della sofferenza.
Sara Roggi
[Immagini tratte da Google Immagini]