La comunicazione sta prendendo sempre più spazio nelle nostre vite. Se consideriamo anche la sua dimensione mediata (dalla televisione ai social network), capiamo di essere costantemente in comunicazione. Per questo motivo abbiamo bisogno di professionisti che affrontino l’argomento con spirito critico e ci aiutino a orientarci, così da non rischiare di partecipare – anche inconsapevolmente – a fenomeni come l’hate speech.
Uno di questi professionisti è Bruno Mastroianni, docente di Comunicazione politica e globalizzazione, giornalista, social media manager… insomma, una persona che conosce le diverse sfaccettature del comunicare.
A giugno del 2017 Mastroianni ha pubblicato La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, libro che parla di come interagire in contesti online e offline non insultando, ma, al contrario, cogliendo le opportunità di crescita che l’interazione porta con sé.
Ho intervistato l’autore partendo da una contraddizione della comunicazione contemporanea.
Nel corso degli anni, nonostante la progressiva centralità della comunicazione, il tema del dialogo – della “disputa felice”, come dici tu – non è riuscito a mettere radici nelle coscienze delle persone. Sei d’accordo? Quali sono le ragioni di questo insuccesso?
Concordo. Una delle ragioni è che spesso si separa l’essere dal comunicare, si crede che la comunicazione sia strumentale, si aggiunga alla vita invece di farne parte, ma le cose non stanno così: noi siamo ciò che comunichiamo e viceversa, le due dimensioni si influenzano a vicenda.
Nella nostra società globalizzata e digitalizzata, l’incontro con la diversità dell’altro è diventato un’esperienza quotidiana e costante. Si tratta di una novità nella Storia; nel passato, infatti, questo incontro era una scelta: ad esempio viaggiavamo solo per incontrare persone di contesti sociali diversi dal nostro. Oggi, invece, grazie a internet e ai social, abbiamo un contatto costante con qualcuno che parla un’altra lingua, che ha valori molto differenti. Tutto ciò richiede un cambiamento nel nostro modo di essere.
Non è solo una questione di culture: qualche anno fa c’erano gradi di separazione più netti anche tra vicini della stessa società, poi il web ha permesso a tutti di parlare e scrivere, togliendo la supremazia alle élite intellettuali.
Il sottotitolo del tuo libro è Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico. Quali sono le differenze tipiche tra le dispute nei tre mezzi di comunicazione?
La differenza principale è il tipo di interlocutori: sui social network può farsi sentire anche chi non ha le competenze per affrontare un determinato tema, e può farlo anche con la violenza verbale; sui media tradizionali – pensiamo alla televisione – le dispute avvengono tra interlocutori selezionati, tra persone abilitate a parlare di certi argomenti.
La caratteristica comune, invece, è la dimensione pubblica: questa dimensione genera disorientamento perché non consiste solo in uno scambio di contenuti, ma al suo interno, ogni volta che comincia una disputa, il nostro mondo viene messo in discussione da quello altrui e ciò succede davanti a molte altre persone. Il cittadino comune è attrezzato culturalmente a gestire questa complessa dinamica sociale? Possiamo chiedere a ciascun cittadino di vivere in un mondo in cui si può essere costantemente messi in dubbio? Io credo di sì, ma serve un’educazione che ci eserciti a coltivare queste capacità.
A proposito di educazione, nel primo capitolo de La disputa felice parli della carenza di «percorsi culturali/educativi adeguati» alle sfide del web. Credi che questa carenza avrà effetti in futuro?
Stiamo già vedendo gli effetti di questa carenza: ciò che oggi incontriamo nei social è il risultato di una tendenza a concentrarsi sul momento “off” e non sul momento “on”, a tirarsi indietro e chiedersi: “Chi me lo fa fare, di stare in questa mischia continua?”, a non occuparsi della propria reputazione online. Ricordiamo che spesso le persone cercano i nostri profili in Google e Facebook per conoscerci, per scoprire qualcosa di noi.
Noi possiamo diventare esempi per queste persone disputando felicemente con i nostri contatti social? Mi sembra che nel tuo libro accarezzi questa idea.
Questo è il contributo culturale della disputa felice. Così come il trolling alimenta l’offesa e la provocazione, anche il reagire con pazienza ai commenti aggressivi può ricucire una fiducia sociale che stiamo perdendo. Anche perché spesso quell’aggressività nasconde disagi e questioni profonde nella società.
Ognuno di noi è un esempio: è chiaro che le istituzioni hanno più strumenti per esserlo, ma ciò non toglie che ogni cittadino può impegnarsi. Prendiamo il gruppo WhatsApp dei genitori di una classe scolastica: se i componenti non vedranno quel gruppo come un ambiente di scontro, ma cureranno la qualità della discussione, il contributo culturale sarà enorme.
La Chiave di Sophia è una rivista di filosofia pratica. Secondo te qual è il ruolo della filosofia nella società contemporanea?
Oggi la filosofia deve far crescere la consapevolezza sulle capacità umane. In una società sempre più tecnologica, la risposta dev’essere il più possibile non tecnica.
Ne La disputa felice faccio l’esempio della conversazione radiofonica tra Giuseppe Cruciani e una badessa di clausura nel programma La Zanzara. Perché ho scelto questo episodio? Perché quella badessa non è solo una brava comunicatrice, ma è stata innanzitutto presente a se stessa. Ciò dimostra che non è una questione di tecniche, ma di consapevolezza della propria persona. È il segnale che oggi, di pari passo con lo smartphone, abbiamo bisogno di più occasioni di riflessione sulle abilità degli esseri umani.
Stefano Cazzaro
[Immagine tratta da Google immagini]