Home » Rivista digitale » Cultura » Lettura » Il Conte di Montecristo

Il Conte di Montecristo

Il commissario di polizia batté col martello tre colpi. La porta si aprì, i due gendarmi spinsero il prigioniero che esitava; Dantès oltrepassò il limitare terribile, e la porta si richiuse subito con fracasso dietro a lui. Egli respirava un’altra aria, un’aria mefitica e pesante; era l’aria della prigione.

Edmond Dantès, prossimo alle nozze e ad una carriera brillante, vede la sua vita fermarsi in un secondo. Senza aver commesso alcun reato, viene condannato a trascorrere anni di prigionia in una cella del Castello d’If. Senza poter vivere, senza riuscire a godersi ciò che il futuro gli aveva riservato, ma soprattutto senza sapere perché e per mano di chi.

Chi aveva desiderato così ardentemente una condanna completamente ingiusta? Perché era stato sbattuto in una cella senza poterne nemmeno conoscere il motivo?

Anni di domande, rinchiuso in quella cella. Una cella in cui non sa cosa sia la pace, in cui non sa cosa sia il sollievo. L’incontro con Faria aiuta Emond ad uscire di prigione, e pochi mesi più tardi, a tornare a Parigi nel ruolo di Conte di Montecristo.

Ma chi è il Conte di Montecristo?

Io sono uno di questi esseri eccezionali; sì, monsieur, lo credo; fino a oggi nessun uomo si è trovato in circostanze simili alle mie. I regni dei monarchi sono circoscritti da montagne, da fiumi, da cambiamenti di costumi o di lingua. Il mio regno, invece, è grande come l’universo perché non sono né italiano, né francese, né indiano, né americano, né spagnolo: io sono cosmopolita. Nessun paese può dire di avermi visto nascere; Dio solo sa quale terra mi vedrà morire. Io adotto tutti gli usi, parlo tutte le lingue. Voi mi credete francese, non è vero? Perché parlo il francese con la stessa facilità e purezza di voi. Ebbene! Alì, il mio moro, mi crede arabo; Bertuccio, il mio intendente, mi crede romano; Haydée, la mia schiava, mi crede greco. Dunque capirete che, non essendo di alcun paese, non chiedo protezione ad alcun governo; non riconoscendo alcun uomo per mio fratello, non può arrestarmi né paralizzarmi alcuna sorta di scrupoli che arrestano i potenti o di ostacoli che paralizzano i deboli. Io non ho che due avversari, non dirò due vincitori, perché li sottometto con la tenacia: la distanza e il tempo.

Rappresenta tutto e al tempo stesso non si identifica particolarmente in nessuno. Uomo di cultura, di mille saperi, affascinante, irresistibile. Conquista tutti il Conte di Montecristo al suo arrivo a Parigi; conquista anche i vecchi nemici di Edmond Dantès.

Quante volte, ognuno di noi, ha pensato a come realizzare la propria vendetta nei confronti di altri?

Il capolavoro di Dumas tesse la tela della vendetta, in un filo logico perfettamente lineare e al tempo stesso pieno di sfaccettature. E’ un romanzo che copre ogni tema; la necessità di rivalsa, la (poca) giustizia, il perdono, l’amore. Un intreccio di Bene e Male, un intreccio di passioni e tumulti interni all’uomo e ad ognuno dei personaggi. Tutti sono dotati di convenzioni, modi di essere che puntualmente cedono davanti alle passioni e ai punti deboli.

L’avidità indossata dal banchiere, la bramosia dell’invidioso, la smania di potere di chi ha rinnegato tutto del suo passato per ottenere il successo. Manichini che il Conte di Montecristo riesce a rendere di cartapesta, perché riesce a vendicare Edmond Dantès.

La fiamma dell’odio suscitato dall’ingiustizia contro gli innocenti ha il potere di resistere anche ai venti più contrari. La vendetta è un veleno che agisce lentamente, ma che consuma chi la subisce tanto quanto chi la compie, eppure pochi mortali sono in grado di resistere alla inebriante senso di potere che può dare il ripagare i torti subiti.

Ma perché Montecristo riesce a delineare una vendetta che Dantès non sarebbe riuscito a realizzare?

Perché c’è malizia, c’è arguzia, c’è la sfiducia negli uomini e la poca sensibilità. Ogni buono è capace di diventare il peggiore dei cattivi, ogni uomo è capace di essere tenace attraverso tempo e distanza.

Ho letto e riletto questo grande classico; ogni volta ne scopro aspetti nuovi, penso non basterebbe un libro intero per raccontare le sensazioni che regala. Scorrevole, colmo di analisi introspettive, mai scontato.

Ciò che me lo ha sempre fatto amare di più è la sua completezza; perché si sa, un libro completo ti insegna qualcosa in più rispetto a tutti gli altri, diventando estremamente attuale ed indicato per ogni situazione. Ti lascia un brivido sulla pelle, il brivido di sentirti immerso in quelle pagine, che non vorresti mai chiudere.

Non v’è né felicità a questo mondo, v’é la comparazione tra una condizione e l’altra. Nulla di più. Solo colui che ha conosciuto l’estrema sventura è in grado di provare l’estrema felicità. Bisogna aver desiderato morire, per sapere quanto sia bello vivere.

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!