Mi schiero dalla parte dei pensatori mansueti, dei contemplatori e degli ascoltatori della buona musica, che nonostante l’emozione che può suscitare un certo brano, non alzano mai troppo il volume per amore della pace. Mi schiero dalla parte dei passeggiatori, dei vagabondi, degli ascoltatori, di tutti coloro che rifuggono il chiasso inutile e il cicaleccio qualunquista per abbandonarsi al silenzio. Mi schiero dalla parte dei monaci e dei meditativi, di comunica senza parole, senza recare alcun danno acustico all’ambiente circostante, e di chi sa quanto può essere degradante una vita turbata da inutile clamore.
Per tutti costoro e per chiunque voglia aggiungere la sua firma, propongo un bando contro gli aspirapolvere, affinché siano confinati dalla società umana e ostracizzati da essa per sempre. Sono macchinari fastidiosi e irritanti, che sviliscono completamente l’iniziativa pratica delle pulizie, rendendo volgarmente pigro un lavoro di grande calma e umiltà; e tutto in cambio di baccano e sbuffi violenti che torturano l’udito di chiunque si trovi con un pensiero per la testa. Un bell’affare, potremmo dire, proprio quel che ci vuole per rendere migliore l’umanità, ma perché lasciar la scopa a prender polvere nello sgabuzzino quando ci si trova ad avere diversi metri quadri su cui esercitare ciò per cui è stata fatta? Perché evitare a tal punto di impiegare qualche minuto in più per ripulire un pavimento? Usare una scopa è un’azione ripetitiva, lenitiva, acquieta le doglie del quotidiano tribolare con lenti e circoscritti movimenti, che non commettono alcun crimine acustico e adempiono egregiamente alla loro mansione. Le setole carezzano il pavimento come una mano innamorata, la polvere si ammucchia tranquilla in un grigiore sempre più fitto, e la purezza del silenzio è così preservata; tutto è lasciato all’intenzionalità, alla flessuosità delle braccia che accompagnano il manico, alle direttive della mente che si sollazza e si svaga in compitini minori, che organizza un criterio e un coordinamento per raccogliere tutta la polvere in un punto solo, invece di farsi vivere dalla incoscienza della macchina. La serenità di chi ramazza è intatta, il suo cervello rilassato, il discorso con la sua anima non viene interrotto; adagia la scopa alla parete e si dirige allo sgabuzzino per trarne fuori la paletta, poi riafferra la scopa, accompagna la polvere nella paletta, e mentre va in cerca del cestino canticchia un motivetto spensierato, senza ferirsi, senza insultarsi, perché se è la sua volontà a creare della musica, allora non vi è disturbo o interferenza, e la riflessione dell’Io prosegue la sua magniloquente vicenda.
Ma poi all’improvviso un ipotetico inquilino ritorna a casa e si accorge di un angolo lasciato un poco sporco dalla nostra innocua negligenza; e dunque, senza pensarci due volte, costui cava fuori dall’armadio un aggeggio ingombrante e spaventoso a guardarsi, che non appena viene acceso fa un chiasso insopportabile. Non c’è stanza che si salvi da quella violenza acustica, ogni angolo della casa piomba in un caos assoluto, il dialogo con l’anima si spezza, l’umanità interiore svanisce come inghiottita da un tornado, e tutto si trasforma in frastuono e delirio senza senso. Vorremmo dire al nostro inquilino di spegnere l’aggeggio, ma ci rendiamo conto che dovremmo urlare per farlo, sgolarci, perché magari lui nemmeno ci sente tanto ha le orecchie otturate dall’aggressività dell’aspirapolvere. Il chiasso mette a dura prova i nostri nervi, stringiamo i denti, respiriamo profondamente per non iniziare a litigare, sarebbe l’ultima cosa che vorremmo dopo esser stati malmenati da tutta quell’irruenza bruta; ma il nostro inquilino non accenna a smettere e anzi gli viene la bella idea di ripassare tutta casa con quell’aggeggio mostruoso, perché magari non si fida del nostro lavoro con la scopa. “Abbiamo un aspirapolvere, scusa, perché usi la scopa come i cavernicoli?”.
Chiudiamo il libro che stavamo leggendo e roteiamo lo sguardo verso il soffitto in cerca di una risposta ancestrale; non vediamo niente se non il biancore sgretolato della vernice, e il rumore dell’aspirapolvere si avvicina sempre più man mano che si ripassa ogni stanza. Dobbiamo fare qualcosa, intervenire, rimostrare. Dobbiamo educare la gente alla bellezza del silenzio, al raccoglimento interiore e alla convivenza onesta, dobbiamo far capire che anche in un oggetto così quotidiano e banale come un aspirapolvere può nascondersi l’insidia del male, che infiacchisce la manualità e offusca il cervello invece di coccolarlo. Dobbiamo trasformare e ripensare radicalmente il nostro rapporto con la tecnologia, considerare per prima istanza la nostra incolumità spirituale e poi usufruire di questi aggeggi con cognizione di causa, sapendo quanto danno possano arrecare a quel che ci rende umani. Non solo l’aspirapolvere zittisce prepotente il nostro pensiero, ma costringe anche coloro che ci stanno attorno a un tremendo baccano che non si sono meritati; non solo danneggiamo noi stessi, ma coinvolgiamo direttamente anche gli altri, e questa è la definizione categorica di un’azione generalmente stupida.
L’aspirapolvere è una maledizione moderna, uno strumento punitivo, un obbrobrio di affare che non risolve nulla se non la nostra svogliatezza. L’aspirapolvere trae energia dall’ansia di fare tardi e si mantiene nelle case per la nostra paura di perdere qualche minuto di più; peggio di un parassita, peggio di un vicino irascibile. Ma fidatevi di me, ascoltate i guaiti dei cani: spezzate il sigillo che vi lega a quella macchina, rimpadronitevi della vostra vitalità; altrimenti sarà troppo tardi e tra la polvere raccolta finirà anche la vostra anima.
Leonardo Albano
[Immagine tratta da Google Immagini]