Negli ultimi decenni, stiamo attraversando un processo di crescente e irreversibile dematerializzazione dell’esperienza umana. Ne sono un esempio il passaggio dai supporti materiali a quelli digitali per la fruizione musicale, cinematografica e letteraria, la trasformazione della fotografia e l’integrazione dell’intelligenza artificiale nella quotidianità. L’elemento primario che vede modificare il proprio ruolo di mediatore con il reale permettendone un’esperibilità, è il corpo: nell’evolversi dei processi di digitalizzazione, esso viene progressivamente sottratto e depotenziato, poiché non è più un elemento inevitabile nella relazione tra l’essere umano e il mondo. Ci troviamo in un’epoca di rivoluzione dei paradigmi antropologici, in cui lo sviluppo incessante delle tecnologie sta ridefinendo le modalità attraverso cui le persone possono configurare la propria esistenza.
«Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo. Già alcuni decenni fa il teorico dei media Vilém Flusser osservava: “Le non-cose stanno penetrando nel nostro ambiente da tutte le direzioni, e scacciano le cose[…]» (B. Chul Han, Le non cose, Einaudi, Torino 2022, p. 6).
Il filosofo Maurice Merleau-Ponty, in continuità con la tradizione fenomenologica, afferma che il corpo non sia un semplice oggetto tra gli altri, ma il luogo attraverso cui il soggetto si relaziona al mondo. Egli lo definisce come una sorta di “soggetto incarnato”, un’entità ch percepisce e agisce in modo unitario. Nell’opera Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty scrive:
«II nostro corpo […] è ciò che proietta all’esterno i significati assegnando a essi un luogo, ciò grazie a cui questi significati si mettono a esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi […]. Il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo» (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 156).
L’attuale trasformazione digitale mette in crisi questa relazione diretta con il mondo. Le tecnologie immersive, come la realtà virtuale e gli ambienti digitali, rischiano di allontanare sempre più l’individuo dall’esperienza tangibile e incarnata. Il corpo, che secondo Merleau Ponty è ciò che “ci ancora al reale”, perde progressivamente il suo ruolo centrale.
All’interno di questa innegabile transizione digitale, emerge la questione di cosa si perda, in termini esistenziali, quando gli oggetti non oppongono più resistenza al corpo. Quale ruolo può assumere la corporeità quando il senso dell’esperienza umana deve essere ri-significato in modi ancora difficili da comprendere? È necessario interrogarsi sulla possibilità che il corpo continui ad avere un ruolo nella costruzione del senso di sé e, di conseguenza, sulla necessità di preservare il valore dell’esperienza incarnata in un’epoca che spinge verso la dematerializzazione. Queste domande rimangono aperte e il dialogo tra fenomenologia e filosofia contemporanea offre uno spazio fecondo per affrontarle.
Un’altra prospettiva viene offerta dalle riflessioni filosofiche del postumanesimo, che elabora un nuovo concetto di corpo: non più un’entità stabile e fondamento dell’esperienza umana del mondo, ma una realtà aperta, attraversata da forze biologiche, tecnologiche e sociali. Alcuni pensatori come Rosi Braidotti o Claudio Bonito elaborano un’idea fluida della corporeità, interpretata come una superficie che si fa porta, attraverso la quale interfacciarsi sia con le esperienze concrete che con quelle virtuali e digitali.
Il corpo gradualmente si disincarna e si modifica progressivamente attraverso l’inserzione di biotecnologie e dispositivi di realtà aumentata, che sovrascrivono e ampliano le possibilità esperienziali. Nel suo libro Il postumano, Braidotti scrive che il corpo non è un contenitore chiuso, ma una superficie di intensità, attraversata da flussi di energia e affetti che lo connettono al mondo circostante1.
Questi processi trasformano il corpo in un’entità ibrida, in cui l’organico e il tecnologico si intrecciano. Se da un lato ciò amplifica le capacità corporee, dall’altro mette in discussione il concetto tradizionale di identità umana. Braidotti propone una nuova forma di soggettività, non più basata sulla fissità di un corpo che esperisce e significa il mondo, su una soggettività relazionale, capace di innestarsi nella complessità del mondo attuale. Questa prospettiva evidenzia la necessità di mantenere aperta la domanda antropologica: cosa significa essere umani oggi? Quali sono i processi attraverso cui possiamo abitare i nostro tempo? Il corpo continua a essere un elemento centrale di questa riflessione, anche nella sua inevitabile trasformazione. Se la fenomenologia insiste sulla corporeità come radice dell’esperienza umana, il postumanesimo ne esplora le potenzialità di ibridazione. Il futuro della soggettività si gioca in questa tensione tra continuità e metamorfosi, tra resistenza e ridefinizione della corporeità nell’era digitale.
NOTE
1. Cfr. R. Braidotti, Il postumano, DeriveApprodi, Bologna 2020.
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Maria Chiara Pelosi
Nata nel 1992 a Cremona, dove vive e insegna in una scuola secondaria di secondo grado. Ha studiato Filosofia all’Università Cattolica di Milano prima e all’Università di Torino poi. Nel corso della sua vita, oltre che alla filosofia, si è appassionata alla lettura, alla scrittura e alla storia. Le interessa il rapporto tra il pensiero e il linguaggio, ma ha studiato anche la filosofia esistenzialista e postmoderna. Per lavoro ha approfondito i temi della didattica, dei processi di apprendimento e della salute mentale. È mamma di un bambino e di una bambina. Di notte scrive poesie.