Al centro delle opere di Curzio Malaparte (nome d’arte di Kurt Erich Suckert, 1898-1957), troviamo sempre l’ingombrante, forte, contraddittorio personaggio che l’autore vuole volta per volta rappresentare. Il giovanissimo volontario della Grande Guerra che in La rivolta dei santi maledetti (1921) si scaglia contro i comandi militari e vi contrappone il popolo che aveva tentato, con la disfatta di Caporetto, una ribellione contro l’esercito; il fascista della prima ora, spinto da ideali rivoluzionari, che quando il movimento diventa regime diventa critico e subisce il confino (Tecnica del colpo di stato, 1931); il corrispondente di guerra che segue le truppe tedesche sui vari fronti europei (Kaputt, 1944): a ognuna di queste opere sembra corrispondere un autore diverso, tutti di indiscusso talento e pronti alle più diverse avventure ideologiche.
Dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia (10 luglio 1943), Malaparte diventa ufficiale di collegamento fra l’esercito di Badoglio e le truppe angloamericane che si preparano a risalire la penisola. È questo il contesto del suo libro più celebre, La pelle, che nel 1949 ebbe un clamoroso successo di scandalo.
Siamo a Napoli, tra un popolo che ha appena avuto «l’invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori ai vincitori». C’è una forte ambiguità in tutto questo: i soldati americani sono dipinti come ingenui, semplici, pieni di buone intenzioni e convinti di aver portato la libertà; ma per lo stesso fatto di essere una truppa d’occupazione contagiano la collettività di una vera peste.
La rovina portata all’Europa dalla guerra è infatti il vero tema centrale dell’opera. Una rovina soprattutto morale: per sopravvivere, salvarsi la pelle, non c’è orrore, non c’è vergogna da cui si possa arretrare. Tutto è in vendita. Davanti al lettore si spalanca il baratro di una corruzione nera, senza rimedio: la ragazza che espone a pagamento la sua verginità ai soldati; le parrucche bionde che le prostitute si pongono sul sesso per attirare meglio i clienti; la grottesca cerimonia folcloristica “della figliata” celebrata da un gruppo di femminielli; l’incontro con il cane Argo, sparito e ritrovato in un laboratorio di vivisezione. Al culmine di questa sfilata di orrori, l’eruzione del Vesuvio (realmente avvenuta il 18 marzo 1944) segna la partecipazione della stessa natura a questo senso di sfacelo.
Vero simbolo di questo disastro è l’episodio dell’uomo che muore orrendamente schiacciato da un carro armato: «Era un tappeto di pelle umana (…) pareva un vestito inamidato, una pelle di uomo inamidata (…). Quella bandiera è la bandiera della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle».
Tutta l’opera si nutre di un contrasto di fondo: un realismo brutale che attraverso il linguaggio, acceso, sempre sopra le righe, diventa visionario, onirico.
E Malaparte gioca con questi elementi fino alla fine, provoca consapevolmente il lettore, lo sfida a rifiutare tutto questo, a mettere in dubbio la stessa sincerità dell’autore. In uno straordinario passaggio il narratore è a pranzo con un gruppo di ufficiali, e nella conversazione si sostiene che Malaparte sia abituato a inventare molti degli episodi che racconta nei suoi libri. Allora lui dice che no, queste cose gli succedono veramente. Proprio poco fa ha trovato nel suo cuscus la mano di un soldato marocchino saltato su una mina, e l’ha educatamente mangiata per non turbare l’atmosfera; anzi, a prova di questo, mostra le ossa delle falangi ben riordinate nel piatto. Sono solo ossicini di montone, poco dopo il lettore viene a saperlo; ma tutto questo è indicativo dell’atteggiamento teatrale con cui Malaparte rielabora la realtà.
La pelle è un’opera che affascina per lo straordinario talento con cui il mondo è trasformato in parola; e insieme respinge per i suoi eccessi e per quella pesante dose di artificio da cui è segnata; ma sicuramente è un’opera che non lascia indifferenti. E forse era proprio questo che all’autore premeva.
Giuliano Galletti
[Immagini tratte da Google Immagini]