Da qualche tempo a questa parte è diventato una specie di mantra: “Smetta di occuparsi di politica e si limiti a fare x”, dove “x” è volta volta scrittore, giornalista, magistrato, capitano navale, attore, storico, presentatore televisivo, calciatore e chi più ne ha più ne metta. Il punto è sempre lo stesso: la politica, a quanto pare, è appannaggio esclusivo dei suoi protagonisti, e chiunque non rientri nella specifica categoria professionale (ma anche in quel caso sono necessari dei distinguo) deve astenersi da qualsivoglia commento e ancor più critica (sono curiosamente ben tollerati invece i plausi).
Intellettuali e figure pubbliche, insomma, devono astenersi dall’influenzare le opinioni dell’elettorato usando la propria autorità per entrare in un ambito che non compete loro. Il problema della politica, però, è che non si tratta di un ambito in senso stretto, ma piuttosto di un macro-contenitore, in cui rientrano economia, scienza sociale, comunicazione, psicologia, e soprattutto etica. Vietare, più o meno ufficialmente, prese di posizione pubbliche nei confronti della politica da parte di personalità più o meno esperte, vuol dire di fatto proibire qualsiasi voce contraria che richiami a un bene e a un male, a un giusto e a uno sbagliato, che esulino dalla dimensione partitica e si ricolleghino invece a un ambito più umano e universale. Quando poi manovre, leggi e provvedimenti sono controversi e rischiano di marginalizzare o addirittura danneggiare parti della popolazione, l’imparzialità non solo è impossibile, ma diventa criminale: come diceva Elie Wiesel, «la neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, mai il torturato»1.
La principale falla logica, però, è un’altra: i personaggi pubblici richiamati alla mitologica neutralità sono invitati non tanto a non parlare di politica in senso assoluto, quanto piuttosto a non esprimere dissenso nei confronti di una determinata politica. Quello che si vuole evitare non è una sbandierata invasione di campo da figure professionali esterne, ma un dissenso che possa fregiarsi di un’autorevolezza e una competenza pari se non superiore a quella dei funzionari criticati. In questi casi, il silenzio non è affatto definibile “imparziale”, ma assume anzi in sé una forte presa di posizione. Già nel 1932 Gaetano Salvemini aveva capito che la tanto invocata neutralità, semplicemente, non esiste, e che l’unica forma di imparzialità possibile in chi si rivolge a un qualsivoglia pubblico è quel tanto di onestà intellettuale sufficiente a mettere subito in chiaro le proprie posizioni: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere»2.
Questo tipo di imparzialità, che sia sbandierata, richiesta o imposta, non è che una trappola: parlare di etica, di società, di relazionalità, non può essere accomunato a fare propaganda, proprio perché i temi in questione sono e devono essere trasversali a qualsiasi programma partitico. La coscienza critica, unita a un minimo senso di responsabilità, porta inevitabilmente a prendere posizione, che non vuol dire automaticamente sfociare nella faziosità, ma semplicemente rivelarsi capaci di pensiero autonomo e coscienza morale.
Tutto quello che si può pretendere da qualunque giornalista, persona di spettacolo, sportivo, intellettuale che voglia affacciarsi sulla scena pubblica, è la stessa promessa trovata al punto 184 delle Massime e riflessioni di Goethe: «Posso impegnarmi a essere sincero, ma non a essere imparziale».
Giacomo Mininni
NOTE:
1. In REGAN Tom, Gabbie vuote, Ed. Sonda, 2005, p. 6.
2. G. Salvemini, Mussolini diplomatico, ed. Laterza, 1952, Prefazione