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Damien Hirst e il paradigma dell’arti-star

Le buone pratiche per diventare un arti-star sono poche, ma devono essere seguite con coerenza e in modo rigoroso sin dall’inizio: costruisci il tuo marchio personale con attenzione, snobba il sistema istituzionale, diventa miliardario, alterna periodi di silenzio a grandi eventi. Stupisci, sempre.

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E su questo non si può dire niente, Mr Hirst ha stupito il suo pubblico un’altra volta. Dopo mesi di febbrile attesa, lo scorso 8 aprile a Venezia, La Fondazione Pinault ha inaugurato la totemica personale dell’artista, allestita in contemporanea nelle due sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Una scelta che fino ad oggi non si era mai vista.

Ma d’altronde il ritorno di Hirst, dopo quasi dieci anni di assenza dalle scene, non poteva che puntare all’eccesso. Ed infatti l’artista ci offre il privilegio di scoprire niente di meno che il più grande successo archeologico dell’ultimo decennio: il ritrovamento del tesoro della nave Apistos (che in greco significa incredibile, l’unbelievable che dà il titolo alla mostra), naufragata secoli fa nelle profondità dell’Oceano Indiano. Leggenda vuole che questo tesoro appartenesse al liberto Cif Amotan II, vissuto tra il I e il II secolo a.C. in Antiochia.

Il signor Hirst si presenta dunque come il mecenate della spedizione di archeologi che nel 2008 ha scoperto il luogo dove tale immensa ricchezza si era inabissata. Questa dunque, sarebbe la storia.

Attraverso l’esposizione l’artista ci spiega tutti i passaggi del ritrovamento, esattamente come farebbe uno storico: dallo studio alla catalogazione dei reperti, tutto è documentato da fotografie e filmati dettagliati, e le opere sono accompagnate da didascalie esplicative, proprio come in un museo d’archeologia e storia naturale. La messa in scena è precisa, chiara e coerente.

Ogni tanto però Hirst ci fa l’occhiolino: evidentemente Mikey Mouse ricoperto di alghe e coralli non può essere un reperto archeologico, né la statua del faraone con il volto di William Pharrell o Mowgli disteso sulla pancia dell’orso Baloo. Si tratta di espedienti che ci permettono di uscire dalla narrazione per riappropriarci del nostro sguardo critico − che sia solo una favola colossale?

E nel concreto danno il ritmo ad una mostra che effettivamente per la sua ridondanza e tendenza alle dimensioni esagerate, tende ad opprimere lo spettatore.

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Insomma, solo Damien Hirst poteva fare una cosa del genere, e forse proprio per riconfermare il suo essere Hirst, nel caso ci fossero dubbi: l’enfant terrible dell’arte, sempre sopra le righe e irritante per più di qualche gallerista. D’altronde per ogni arti-star è fondamentale ricamarsi addosso una propria mitologia, lavorare bene sulle aspettative, dare ogni tanto una spolverata al brand. In fondo Damien Hirst è un marchio, che ha dimostrato di essere ancora attuale individuando nello storytelling la mossa vincente per l’autopromozione.

Ma questa è solo una prima lettura del suo lavoro, e forse quella più semplice di fronte ad un artista diventato letteralmente miliardario e inseritosi nel mercato con idee efficaci, per certi versi geniali, ma che sanno tanto da escamotage.

Effettivamente il problema di essere un arti-star è che spesso la tua poetica passa in secondo piano.

Molti hanno visto in quest’ultimo lavoro dell’artista la sua capacità di rinnovarsi e di sorprendere con idee nuove. A me sembra invece tutto molto coerente, semmai scorgo un certo smussamento di un carattere indagatore più radicale, crudo e impulsivo, probabilmente dovuto alla maturità. Resta di base, e ben evidente, l’ossessione per il tempo che passa, per la deperibilità di esseri e oggetti, tra la fascinazione e la paura. Non ci troviamo più di fronte allo squalo in formaldeide da 12 milioni di dollari, oppure al teschio umano ricoperto da 8.601 diamanti purissimi. Se qui Hirst metteva in teca la morte stessa, ora con The treasures on the wreck of the unbelievable, c’è una riflessione sul valore del ricordo e la memoria, che appaiono facilmente falsificabili. Ma anche sul fascino che esercita la storia per il suo carattere immaginifico, mentre insinua sottilmente il dubbio sulla sua autenticità. Le certezze non sono così solide, e il cinismo si è addolcito, la domanda non è più cos’è la morte ma semmai cosa significa la storia: un infinita collezione di ricordi, vite passate, ricchezze inabissate, appunto.

Senza dimenticare però che Hirst è anche collezionista, e che già in precedenza si era espresso più volte su questo tema:

«Collezionare è come raccogliere oggetti portati a riva, in un posto sulla spiaggia, e quel posto sei tu. Quando poi muori tutto sarà di nuovo portato via».

Risulta quindi naturale vedere nella figura di Amotan – divenuto da schiavo signore ricchissimo – una citazione dell’artista stesso.

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L’abisso come metafora della morte e dello smarrimento del passato potrebbe essere un livello di lettura; d’altronde una riflessione sul mare che inghiotte e poi restituisce è particolarmente attuale, anche se purtroppo nelle profondità marine più spesso si ritrovano corpi che tesori.

Ma considerando quanto questa interpretazione strida con lo sfarzo e l’opulenza percepita, con il senso di autocelebrazione – sia dell’artista che del collezionista – che emerge dall’inizio alla fine dell’esposizione, mi riservo di considerarla una riflessione totalmente personale.

D’altronde è la prima regola di un arti-star: lasciare che il pubblico la pensi come vuole.

Claudia Carbonari

INFO:

Treasures from the Wreck of the Unbelievable — Palazzo Grassi, Punta della Dogana 09/04 – 03/12/2017, Venezia
Maggiori informazioni qui.

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