“Nuovi sbarchi a Lampedusa” è il titolo più ricorrente nei principali notiziari, lo si ascolta alla radio mentre si va a lavoro, è l’argomento più attuale e sempreverde nei dibattiti politici, opinionisti e zelanti giornalisti lo sfoggiano come fiore all’occhiello della sociologia popolare.
Si trascina imperituro rafforzandosi con l’indignazione comune e alla fine diviene oggetto delle immancabili teorie cospirative.
Compaiono neo veggenti che profetizzano nefaste ‘idi di Marzo‘ per l’italica cultura tutta, in contorti ragionamenti incomprensibili ai più, ma non per questo meno acclamati.
Estemporanei geopolitici cercano di far aprire gli occhi, con sonori richiami al risveglio, ai sonnacchiosi improvvidi scettici, colpevoli di non capire che è tutta una macchinazione di oscuri signori del male raccolti in sette massoniche.
Perché gli immigrati in realtà non scappano dalle guerre, non ci sono donne o bambini a Lampedusa quindi in Africa va tutto bene.
Davanti all’immensa mole di convinzioni deviate dai mass media, ma anche dalla scarsa conoscenza delle nozioni di attualità ( quella vera ), non ho potuto far altro che recarmi a conoscere i protagonisti di questi famigerati sbarchi: gli immigrati.
Per ragioni legate alla privacy e al loro status di profughi non ancora rilasciato dagli organi competenti, mi è stato chiesto di non fare nomi e non ne farò.
Posso solo parlare di Kolda, di Bamako, del Kaouar, del Grande Erg di Bilma e del Fezzan.
Non sono luoghi tratti dalle avventure narrate da Jules Verne o da Tolkien, sono le principali tappe del viaggio intrapreso dagli immigrati, lungo seimilatrecento chilometri, dall’Africa occidentale a Tripoli.
Kolda è una città di sessantamila abitanti, il principale centro di una regione del Senegal meridionale chiamata Casamance, separata quasi per intero dal resto del Paese dal fiume Gambia e dalla Repubblica omonima.
La Casamance ha sviluppato nel tempo un forte senso di autonomia, sfociato in un conflitto indipendentista durato dal 1982 al Maggio del 2014.
Tutt’oggi numerose bande armate si aggirano nel territorio cercando di reclutare, con la forza, uomini abili e in molti casi bambini.
Non si può certamente definire Kolda come luogo adatto ad una vita normale, ma se ci nasci, non puoi far altro che convivere con i signori della guerra e lavorare un pezzo di terra, come tuo padre e il padre di tuo padre.
Se non puoi resistere o combattere una guerra non tua, scatta la decisione di partire verso quella che agli occhi di un agricoltore della Casamance si chiama ‘Terra del riscatto’: l’Europa.
I seimilatrecento chilometri del viaggio non possono essere coperti con un bel volo di linea perché il mezzo più costoso che ti puoi permettere a Kolda è una bicicletta ( 25.000 franchi CFA, circa 40 euro ), i documenti non li hai perché in Casamance dopo una guerra durata trentadue anni, metà della vita media di un senegalese, non ci si preoccupa dell’ufficio anagrafe o del passaporto.
Quasi quattromila chilometri sono nel deserto del Sahara a bordo di un pick-up assieme ad altre trenta persone l’unica fonte di approvvigionamento è un vecchio bidone di nafta adibito a cisterna d’acqua quasi santa, che ti permette di raggiungere il Grande Erg e il Kaouar nel Niger settentrionale.
Nel Fezzan si spara, così come in molte frontiere, si passa di notte dopo mesi di appostamenti e tentativi andati a vuoto.
Prezzo: 50.000 franchi CFA; recensioni su TripAdvisor: nessuna.
La decisione di lasciare moglie e quattro figli piccoli a Kolda, non mi è sembrata così egoistica o strana.
Chi potrebbe fisicamente affrontare un viaggio simile se non uomini adulti e in salute?
Uomini, futuri immigrati in Europa, che rimangono quasi un anno nella Libia lacerata dalla guerra civile per cercare i soldi con cui affrontare l’ultima, e forse la più difficile, tratta del percorso: i trecento chilometri da Tripoli a Lampedusa ( 1000 dinari libici, circa 640 euro ).
Quella che vi ho presentato è solo una delle tante storie che queste persone mi hanno raccontato, perché potrei raccontare anche di altre ‘Casamance’ in altri Paesi africani, di dittature, di violazione dei diritti umani, potrei parlare delle “guerre dimenticate” che a forza di negarle si stanno dimenticando davvero.
Potrei dirvi che dal 1876 ai primi anni del ‘900, circa quattro milioni di italiani lasciarono clandestinamente il nostro Paese, senza documenti e senza essere rimpatriati.
Altre decine di milioni lasciarono i porti di Genova e Napoli con la valigia di cartone, portando con se lavoro e ricchezza ma anche diffidenza, delinquenza e mafia.
A salire sul bastimento erano uomini, futuri immigrati nel Nuovo Mondo, capaci di lavorare, mentre le donne e i bambini solo se necessario.
Cantavano “Mamma mia dammi cento lire”, si sposavano per procura: lui a Buenos Aires, lei a Rovigo; molti si integrarono, altri si rifiutarono di imparare l’inglese.
Alcuni tornarono e contribuirono a costruire gli italiani di oggi: liberi di studiare, di crescere; liberi da etichette quali migranti, immigrati, clandestini, rifugiati… liberi persino di non ricordare.
Alessandro Basso
Sono nato a Treviso nel 1988, nel 2007 ho conseguito il diploma triennale in grafica multimediale e pubblicitaria all Centro di Formazione Professionale Turazza di Treviso; dopo aver lavorato alcuni anni, ma soprattutto dopo un viaggio in Australia, sono tornato sui libri e nel 2013 ho conseguito il diploma di maturità al Liceo Linguistico G. Galilei di Treviso. Attualmente sono laureando in Storia e Antropologia all’Università Ca’Foscari di Venezia.
Mi piace molto leggere, senza tuttavia avere un genere preferito; i miei interessi spaziano dalla cultura umanistica alla sociologia, e in certi ambiti anche alla geologia.
[immagine tratta da Google Immagini]