In quest’opera pubblicata postuma nel 1779, Hume si rifà al De natura Deorum di Cicerone, ovvero ad un dialogo a tre in cui un personaggio scettico metteva in discussione le credenze dogmatiche degli altri due. Ecco quindi che nei Dialoghi sulla religione naturale troviamo Demea (teologo e mistico a priori), Cleante (teologo newtoniano a posteriori) e Filone lo scettico, il personaggio che più di tutti adotta posizioni humiane senza però averne il monopolio: Hume infatti scrive questo testo non tanto per veicolare proprie teorie quanto piuttosto per mettere alla prova il sistema di Newton sulla base dei suoi stessi princìpi.
La questione che dà il via al dialogo è la determinazione della natura divina, ma ben presto il «che cosa sia Dio» verrà sostituto da un molto più radicale «Dio esiste?». Ciò è dovuto all’emergere di criticità insite nelle argomentazioni volte a dimostrare determinate risposte alla prima domanda. Possiamo notare come Demea non possa che affermare l’inconoscibilità della natura divina, proprio per il suo essere un teologo a priori e, dunque, un teorico di un Dio “logicamente” esistente ma non determinabile poi quanto ad attributi. Cleante, invece, necessariamente controbatterà che attraverso l’esperienza sia possibile non solo essere sicuri dell’esistenza di Dio ma anche della sua natura: esso è infinito, immutabile, assolutamente intelligente ecc., e lo è in senso antropocentrico ed antropomorfo. Filone, nel corso del dialogo, mettendo alla prova le due argomentazioni (spallegiato, rispettivamente, dagli stessi Cleante e Demea), porterà − nei critici capitoli 6, 7 e 8 − alla messa in discussione di concetti che soprattutto all’epoca − ma anche contestualizzati nel contemporaneo − potevano sconvolgere massimi sistemi fisici e teologici dalle fondamenta.
In particolare, stiamo parlando del fatto che, nel sesto capitolo, non sia più scontato che l’ordine del mondo sia garantito da un’intelligenza sovrasensibile (Dio); risultato ricavato dalla sensazionale messa in questione della classica analogia proporzionale secondo la quale macchina:costruttore=mondo:Dio. Ci si domanda, infatti, perché il mondo debba essere necessariamente paragonato ad una macchina e non, ad esempio, ad un organismo vivente. Nel capitolo successivo si passerà a eliminare anche la dipendenza da un qualsiasi tipo di intelligenza, dunque anche immanente (come poteva essere l’anima del mondo del Timeo platonico); fermo restando il fatto che esista un ordine, dunque preservando almeno una finalità senza intelligenza, come ad esempio quella aristotelica. Infine, nel nono, la radicale bomba H dell’opera: anche l’ordine non è più scontato, il mondo che stiamo vivendo potrebbe essere semplicemente (ad esempio) una configurazione più resistente al cambiamento di quelle che l’hanno preceduta nel corso di sconvolgimenti universali. Siamo infatti alle porte, alla fine del XVIII secolo, di nuove teorie evoluzioniste.
Fin qui il leitmotiv è stato ciò che riguardava gli attributi naturali di Dio (infinità, assoluta perfezione, assoluta intelligenza, unicità…), totalmente disintegrati perché impossibili da ricavare, sia a priori che a posteriori. Ora il dialogo “comincia daccapo”, poiché non ci si è ancora occupati degli attributi morali di Dio (bontà, generosità ecc.). Essi sono i più importanti per la credenza religiosa ma, purtroppo per la teologia tradizionale, i più facili da demolire. Come? A partire dalla presenza del male del mondo, assolutamente incompatibile con un Dio buono e contemporaneamente onnipotente. Ecco quindi che la scelta vira sulla visione spinoziana: un assoluto determinismo in cui bene e male non sono che interpretazioni umane viziate dal pregiudizio finalista ed antropomorfo. Quindi la conclusione di Filone è di considerare la natura indipendentemente da conseguenze etiche per l’uomo.
Rimane però una domanda da farsi: da cosa nasce quindi la spinta religiosa e perché la sua importanza per la vita dell’uomo permane nonostante tutto? Anche questa risposta di Hume è radicale, ancora più di quella bayleiana precedente: la molla della pulsione religiosa è la paura − un sentimento naturale, dunque, perché totalmente a-razionale − e per questo così radicata nella natura umana. La natura emotiva della religione la fa diventare il peggior nemico della morale: ci rende insensibili rispetto ai normali sentimenti umani perché ci sottomette ad obblighi superiori che, se in contrasto con quelli umani, li vincono:
«L’esperienza ci dimostra con certezza che il più piccolo granello di onestà e benevolenza naturali ha maggiore efficacia sulla condotta umana di quanto possano le vedute più pompose suggerite dalle teorie e dai sistemi della teologia. L’inclinazione naturale dell’uomo opera su di lui di continuo, è sempre presente alla mente e si fonde con ogni sua opinione e considerazione; al contrario le motivazioni religiose, se mai agiscono, lo fanno solo a tratti e in modo saltuario, ed è raro che possano diventare abituali per la mente» (D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, 2013).
A chiusura, vorrei sottolineare la facilità di lettura dell’opera: Hume ha dato prova di altissima capacità letteraria. I Dialoghi sono un piacere da leggere, per nulla “pesanti” e sicuramente catturano l’attenzione del lettore interessato fin dalle prime righe.
Massimiliano Mattiuzzo
[Photo credits: Ricardo Gomez Angel via Unsplash]