Il nostro tempo è caratterizzato dall’affermazione del divertimento come categoria esistenziale fondamentale. Gran parte delle manifestazioni umane di giovani e adulti si fonda sul divertimento, indicatore sociale di una “bella vita”. Osservando le proposte di aggregazione, le esperienze relazionali e la condivisione di quest’ultime sui social network, risulta evidente come il divertimento sia creduto l’unico sinonimo dello stare bene, dell’avere una vita piena e ricca di significato.
Tuttavia, ad un occhio più attento e profondo, la condizione esistenziale dell’attuale società del “benessere”, appare come una vera e propria contraddizione. La filosofia, il cui compito è sin dalle origini quello di comprendere e “smascherare” la realtà, rivela come al di sotto di questo stile di vita basato sul divertimento e sul desiderio di godimento senza limiti, si celino un disagio profondo e un vuoto esistenziale, dei quali è necessario rendersi consapevoli.
Indagini e statistiche di natura sociologica e psicologica, evidenziano come alla base della “bella vita” sia sottesa una precarietà esistenziale, un’assenza di disciplinamento del desiderio e un vuoto di senso dilaganti, che la società preferisce non riconoscere per perpetuare il suo sistema ideologico radicato nel consumo di ogni aspetto dell’esistenza. A ragione si può parlare di consumo, proprio perché dai più la vita non viene vissuta e portata a compimento, ma letteralmente sciupata. Nella falsa convinzione che maggiormente il desiderio di godimento, privo di legge, è spinto all’estremo, maggiormente si realizza l’esistenza. Quando in realtà il desiderio si alimenta precipuamente di assenza, di limite, di tutto ciò che non lo esaurisce e non placa la sua sete, ma continua a tenderlo verso l’infinito che è sorgente.
La filosofia e i filosofi, sono come profeti che vogliono ridestare la nostra attenzione, avvertendoci che il desiderio infinito dell’infinito, non può essere colmato attraverso il divertimento spinto oltre ogni limite. «Il divertimento, inteso come fuga, − scrive D’Avenia − si può alimentare e ripetere ad oltranza, ma il vuoto resta lì»1. Dunque, una volta finito l’effetto anestetizzante del divertimento stesso, il desiderio esistenziale, che è sete di verità, ritorna a bussare ai nostri cuori e alle nostre menti, portando con sé un carico di angoscia che esige di essere accolto e affrontato, proprio perché essenziale della nostra naturale, precaria condizione.
Pascal è stato magistrale interprete della condizione dell’uomo nel mondo e in particolare dell’uso del divertimento come “alternativa” alla riflessione su se stessi. L’essere umano appare paradossale al filosofo e matematico francese, in quanto in esso coesistono bene e male, sapienza e ignoranza, grandezza e miseria. Questo paradosso non dev’essere negato, ma integrato e compreso. Tuttavia, la maggior parte degli uomini evita di riflettere sulla propria essenza, allontanando il pensiero per la paura di inabissarsi nel vuoto, nel nulla. Gli uomini nascondono a se stessi questa fragile condizione, questi insanabili contrasti e lo fanno attraverso quello che il pensatore chiama divertissement, ovvero divertimento, meglio se tradotto come “diversione” o “distrazione”, dal latino de-vertere “volgere lontano da qualcosa”, in questo caso dalla ricerca del senso della vita. Scrive infatti Pascal:
l’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte2.
Il divertissement pascaliano, indica propriamente quanto avviene nel nostro tempo: l’oblio della propria vera natura e condizione, la fuga da se stessi, al fine di esimersi dal pensare. Ed è proprio questo il lato tragico del nostro tempo, l’abdicare il pensiero, il quale però «costituisce la grandezza dell’uomo»3 e la sua più intima dignità. «L’uomo non è che una canna – scrive Pascal – la più debole della natura; ma è una canna pensante»4.
Il divertimento, così com’è vissuto nel nostro tempo, concede una gioia temporanea. Non appena questa finisce, l’uomo ripiomba nella sua infelicità, nel suo vuoto, nella sua miseria. In tal modo, l’uomo non vive mai il presente, il solo momento realmente esistente. Non è mai contento di ciò che ha, ma è sempre proiettato nel futuro laddove si persuade sia posta la felicità. Ecco che l’uomo non vive veramente. Anche quando crede di farlo attraverso il divertimento, semplicemente spera di vivere, procrastinando la realizzazione di se stesso nel futuro.
Il divertimento è oggi la strategia maggiormente adottata per evitare di soffermarsi a riflettere sul mistero della propria esistenza, costantemente meravigliandosi di essa, interrogandola e indagando ciò che la circonda, come insegna il pastore errante del sublime Canto notturno di Leopardi.
Quanto scritto non intende pronunciare una condanna della dimensione ludica dell’umano, o della sua naturale necessità di abbandono. Si propone piuttosto come un’esortazione, un esplicito invito a meditare criticamente, circa le forme estreme del divertimento e del godimento, ormai divenute habitus e oggetto di vanto per molti uomini (sic!). Al fine di recuperare la peculiarità umana, che è quella di essere capaci di pensare. Perché attraverso il pensiero l’uomo supera la propria miseria conoscendola e riscopre il proprio valore morale. Solo così, riconoscendo il silenzioso dialogo con noi stessi, è infatti possibile la fondazione di un’etica che ci traghetti dalla “bella vita” ad una vita bella, inondata di significato nella sua più intima e misteriosa essenza.
Alessandro Tonon
NOTE:
1. A. D’Avenia, L’arte di essere fragili, Milano, Mondadori, 2016, p. 118.
2. B. Pascal, Pensieri, Milano, Edizioni San Paolo, 198712, pp. 179-180.
3. Ivi, p. 240.
4. Ibidem.
[Immagine tratta da Google Immagini]